Come intervenire in Libia

22 marzo 2011 · 0 Comments

Riportiamo di seguito un articolo ad opera di Rami Khouri apparso sul Daily Star, quotidiano libanese di cui l’autore è un noto columnist, che appare interessante per analizzare il confuso quadro delineatosi a livello internazionale negli ultimi giorni e complicatosi ulteriormente a seguito dell’intervento militare delle forze occidentali, guidate dalla Francia, in Libia.

E’ davvero pensabile agire mediante azioni di guerra per preservare la popolazione civile libica dalla feroce repressione del leader Gheddafi? L’idea di “guerra umanitaria” non rappresenta una contraddizione in termini?

Perché tanto interesse e rapidità da parte degli stati occidentali ad intervenire militarmente contro Gheddafi? 

Cosa dovrebbe fare la comunità internazionale rispetto alla crisi libica. Il divieto di ingerenza negli affari interni dello stato libico fino a che punto può limitarne l’azione?

Come intervenire in Libia

di Rami Khouri

L’idea che le potenze straniere debbano intervenire in Libia per evitare che Muammar Gheddafi massacri i civili ha generato un ampio dibattito in tutto il mondo. La questione è particolarmente complicata perché impone di conciliare aspetti umanitari, giuridici, politici, militari e logistici.
E lo diventa ancora di più se prendiamo in considerazione la possibilità di un intervento statunitense, considerati i precedenti dell’unilateralismo di Washington e la loro doppia morale in altri casi di sofferenze inflitte ai civili da altri governi del Medio Oriente.
Dopo quello che è successo in Ruanda, Kosovo e Bosnia Erzegovina negli ultimi vent’anni, l’obbligo della comunità internazionale di proteggere i civili da violenze, omicidi, pulizie etniche è ormai ampiamente riconosciuto. Come e quando metterlo in atto, e cosa fa scattare un intervento simile, restano questioni molto discusse. La situazione libica rende il problema ancora una volta reale e urgente.
La mia opinione è che un intervento internazionale in Libia sia opportuno, dato che la maggioranza dei suoi cittadini ha espresso il desiderio di mettere fine al regime di Gheddafi e di stabilire un sistema di governo davvero partecipativo, rappresentativo e democratico. Però un intervento del genere, sia esso di natura politica, umanitaria o militare, dovrebbe avvenire solo con tre presupposti: una richiesta di aiuto davvero credibile da parte del popolo libico, il sostegno arabo-islamico-africano – ottenuto attraverso le organizzazioni internazionali che radunano i paesi della regione – e la legittimità derivante da una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu. 

Cercare alleati
Il primo e l’ultimo presupposto probabilmente esistono già, ma ottenere l’autorizzazione dei paesi arabi e africani a un intervento straniero potrebbe essere difficile: la linea politica di organizzazioni come la Lega araba viene decisa dai governi, che probabilmente sono restii ad accettare un intervento, perché in futuro potrebbero trovarsi nella stessa situazione della Libia.
Se l’approvazione dei paesi arabi è difficile da ottenere attraverso la Lega araba, forse sarebbe meglio puntare sui singoli stati, invece di aspettare il consenso collettivo. I dettagli di questa operazione potrebbero essere discussi per mesi, ma ogni giorno che passa i libici subiscono nuove atrocità per mano del regime di Gheddafi.
Se si vuole fermare questo massacro e trasformare il desiderio del popolo libico in un cambiamento di governo e di classe dirigente bisogna decidere in fretta. Il malgoverno, le violazioni dei diritti umani e le atrocità in atto in tutta la regione richiedono risposte diverse.
Oggi la Libia ci ricorda che certe questioni vengono sollevate solo durante le crisi, quando le violenze rendono più pressante l’urgenza di intervenire e di proteggere i civili. In alcuni paesi arabi i governi sono stati responsabili della morte di decine di migliaia di persone e in certi casi, come quello del Sudan, di milioni di cittadini.
Sempre nella regione, Israele ha attaccato brutalmente le terre libanesi e palestinesi, ha ucciso migliaia di persone, ne ha imprigionate altre migliaia, colonizzato le terre palestinesi con la pulizia etnica, e assediato la Striscia di Gaza al punto che i bambini della zona sono rachitici e malnutriti.


E tutti gli altri?
Perché la comunità internazionale dovrebbe intervenire in Libia se non fa nulla per fermare le sofferenze causate dai governi in altre parti del mondo arabo? Perché imporre sanzioni all’Iran per paura di quello che Teheran potrebbe fare con l’energia nucleare, quando la stessa comunità internazionale tace sulle violazioni dei diritti umani in molti paesi della regione?
La mia risposta a questi interrogativi è che il popolo libico in lotta per la libertà ha bisogno di aiuto e se un intervento militare è difficile da realizzare, devono essere subito usate tutte le altre forme di solidarietà: riconoscere il Consiglio nazionale di opposizione come legittimo rappresentante del popolo libico, mandare grandi quantità di aiuti umanitari e di altro genere, usare tutti gli strumenti messi a disposizione dal diritto internazionale per far pressione sul regime di Gheddafi e, se il Consiglio nazionale lo richiederà, inviare delle armi agli insorti.
È chiaro che il regime di Gheddafi ha perso ogni legittimità agli occhi del suo popolo e della comunità internazionale. Per questo il mondo dovrebbe agire con fermezza a livello politico e sostenere il Consiglio nazionale per favorire il passaggio a un nuovo sistema di governo. Un’azione militare straniera sarebbe molto più complicata, perché usare la forza contro la Libia sarebbe un atto di guerra che metterebbe in crisi il diritto internazionale.
Oggi il mondo deve agire subito sul terreno politico per sostenere l’opposizione libica, fino a quando la comunità internazionale non avrà la legittimazione per usare la forza militare in caso di necessità.

Traduzione di Bruna Tortorella per Internazionale del 17 marzo 2011


Aggiornamenti sulla situazione in Libia: Al Jazeera

Uomini, donne e bambini ecco perché vi sterminiamo

20 gennaio 2011 · 0 Comments

di Flore Murard-Yovanovitch



Perché un’immane strage di 300.000 civili, come quella causata dalle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki in un Giappone che aveva già deciso di arrendersi, non è comunemente considerata un «genocidio»? E il Presidente Truman non visto come assassino di massa al pari di Hitler, Stalin, Mao o Pol Pot? 


È con questa domanda provocatoria che Daniel J. Goldhagen, storico di fama mondiale e già autore del controverso bestseller I volenterosi carnefici di Hitler (1996), apre uno dei più esaustivi e potenti saggi sugli eccidi di massa del 20° secolo: Peggio della guerra. Lo sterminio di massa nella storia dell’umanità. Gli stermini di massa avrebbero causato approssimativamente tra i 127 e i 175 milioni di vittime (se si tiene conto anche delle carestie organizzate): più dei caduti delle due guerre mondiali. Tanto per cominciare. 


ESSERI UMANI CONTRO Così arriva subito la domanda di tutti i tempi: perché degli esseri umani scelgono di eliminare altri esseri umani, compresi donne e bambini? Lo storico americano si addentra negli agghiaccianti meccanismi degli eccidi di armeni, curdi, maumau, maya, bosniaci musulmani e di tutti coloro che Stalin, Mao o gli Khmer rossi hanno considerato dissidenti... E svela le numerose tecniche, oltre alla «soluzione finale», per eliminare, anche a lungo termine, altri gruppi con conversioni forzate, marce della morte, campi e Gulag, purghe, sterilizzazioni e stupri di massa....


Se l’Olocausto è stato il genocidio per antonomasia - per l’entità dell’annientamento totale degli ebrei e senza precedenti nella Storia - Goldhagen ritiene che stragi di massa di minore portata hanno avuto meccanismi non molto diversi. Prendendo in contropiede la storiografia ufficiale, lo studioso vede nell’«eliminazionismo» una costante buia della Storia. 


BASTANO I MACHETE E non è la «modernità» (tecnologia, burocrazia e camere a gas), come diffusamente ritenuto, ad aver permesso ciascun genocidio: «Stentavamo a capire che bastavano machete», come confessa l’ex-segretario dell’ONU Boutros-Ghali nel caso del mancato riconoscimento del colossale eccidio di massa ruandese. Né pseudo cause socio-strutturali, come dimostra il caso del Sudafrica, dove anni di Apartheid non sfociarono, all’ascesa dei «neri» al potere, in un attacco contro i «bianchi», bensì nella strada della riconciliazione. Né tantomeno una presunta natura umana «barbarica», che si presumerebbe annidata in tutti noi e che farebbe di tutti noi potenziali massacratori.


Goldhagen dimostra invece che l’avvio di un genocidio è sempre una «strategia» politica per la redistribuzione del potere, un «programma di morte» pianificato a tavolino. Ben lontano dall'essere sfogo o esplosione di follia improvvisa, è una scelta consapevole: «razionale».

CALCOLO RAZIONALE Questa nuova e radicale lettura dello sterminio come «calcolo politico lucido» è uno degli aspetti più interessanti di questo saggio che, dati alla mano, confuta e spazza via false quanto radicate idee comuni sula presunta «irrazionalità» delle aggressioni sterminazioniste. 


A giocare un ruolo scatenante fondamentale sono infatti le visioni dei carnefici circa una presunta «nocività» delle potenziali vittime: in primis l’ideologia malata che fa dell’altro un morbo da «sradicare» per tornare a una presunta «purezza» (Dio, il Volk o la Nazione, ecc). I veri strumenti preparatori: i discorsi che fanno dei nemici «demoni», «sottouomini», «ratti», «serpenti», «babbuini»,«bacilli infetti» (o «pecore nere», come nel recente referendum svizzero anti-stranieri, ndA.). È il processo di «disumanizzazione» dell’altro che porta a trucidarlo: in uno dei capitoli più drammatici del libro, ex-genocidari hutu confessano che non consideravano i tutsi «esseri umani ma scarafaggi»...


TESTIMONIANZE DIRETTE I pregi di questo libro sono immensi: dalle testimonianze dirette raccolte sul campo al rigore delle fonti storiografiche; riporta alla luce stermini dimenticati, come quello del popolo herero dell’Africa sudoccidentale a opera dei coloni tedeschi o dei kikuyu dai britannici, e tanti altri per mano di coloni francesi, belgi, ecc. Senza tralasciare il razzismo che ancora oggi permea la storia «minore» dei popoli «non-bianchi». Domanda dopo domanda, Goldhagen ci porta con genialità, in una indagine che si legge senza fiato, alla radice stessa dello sterminio. E lancia un appello affinché la comunità internazionale si doti di conoscenza, capacità di anticipazione e reale volontà politica per fermare in tempo stragi in corso o latenti, che esploderanno negli anni a venire. Questo libro dovrebbe diventare un manuale per giovani e dirigenti politici, in un’Europa dove fanno la loro riapparizione discorsi xenofobi anti-migranti, espulsioni e deportazioni, che sono e sono sempre stati all'origine di una «cultura» eliminazionista.

l'Unità 8 gennaio 2011

NUOVE RIVELAZIONI WIKILEAKS - «The Bridge to More Organized Crime»

14 gennaio 2011 · 0 Comments

Il ponte per un crimine più organizzato.


Così il console americano a Napoli, Patrick Truhn, intitola un paragrafo dei vari documenti che tra il 2008 e il 2009 invia negli States.
Secondo il diplomatico quindi, sarebbe la mafia uno dei maggiori beneficiari della costruzione del ponte che dovrebbe collegare Sicilia e Calabria. Truhn sottolinea poi che l’infrastruttura «servirà a poco senza massicci investimenti in strade e ferrovie» nelle due regioni.
Quella che disegna è la situazione di un sud-Italia in mano alla mafia, che intimorisce i possibili investitori americani.

La riflessione del diplomatico americano si sposta poi sull’azione dei politici. Citando Saviano, Truhn lamenta uno “scarso impegno a livello nazionale” contro la mafia, elogiando invece “le associazioni imprenditoriali, i gruppi di cittadini e la Chiesa che, almeno in alcune aree, stanno dimostrando promettente impegno nella lotta alla criminalità organizzata”.
Dipinge Saviano come una bussola morale per la lotta alla criminalità organizzata e, fa notare inoltre, come ricorda ai diplomatici statunitensi lo stesso scrittore in un colloquio, come il tema della lotta alla criminalità organizzata sia stato “virtualmente assente dalla campagna elettorale di marzo-aprile” 2008.

Uno dei documenti più interessanti è quello intitolato «La Calabria può essere salvata?».
Una regione controllata su larga scala dall’ ndrangheta, che ha in mano territorio ed economia. “Se la Calabria non fosse parte dell'Italia, sarebbe uno Stato fallito”.
Il console riferisce di un viaggio svoltosi nel novembre 2008 tra le province calabresi.
Prima tappa Catanzaro, dove, dopo numerosi dinieghi, riesce ad incontrare il Presidente della Regione Loiero che “si è lamentato della cattiva immagine della regione e ha evidenziato che la criminalità organizzata, i mercati relativamente inaccessibili e le povere infrastrutture si fondono per scoraggiare gli investimenti nella regione”. Una situazione a cui il politico italiano stesso non è in grado di fornire alcune soluzioni, se non quella di “rendere i prestiti a basso tasso di interesse disponibili, grazie ai fondi strutturali dell’Ue, per le piccole e medie imprese”.

Truhn parla di una regione che “continuerà ed essere una zavorra per il Paese finchè il governo nazionale non dedicherà attenzione e le risorse necessarie per risolvere questi spinosi problemi”.
É il turismo, si legge infine nel dispaccio, che “resta una delle speranze, nonostante le strutture inadeguate (la Salerno-Reggio Calabria è in costruzione da decadi e le connessioni ferroviarie, al di là della costa tirrenica, sono terribili), il degrado ambientale e il crimine organizzato”.

M.B. 

Costa d'Avorio, democrazia cercasi

7 gennaio 2011 · 0 Comments

“Il sequestro e l’assassinio degli avversari politici costituiscono terribili violazioni dei diritti umani, le quali possono e devono essere punite”.  Queste le parole di Rona Peligal, direttore per l’Africa dell’organizzazione non governativa Human Rights Watch, in merito alle vicende delle ultime settimane in Costa d’Avorio.
Negli ultimi giorni dell’anno appena conclusosi, come affermato dalla stessa ONG tramite il suo sito web, forze di sicurezza vicine al presidente uscente ivoriano Laurent Gbagbo, in carica dal 2000, hanno sequestrato e fatto sparire i sostenitori del leader dell’opposizione Alassane Ouattara. 


Il diretto avversario di Gbagbo è considerato dalla pressoché intera comunità internazionale il nuovo legittimo presidente ivoriano, avendo largamente vinto le elezioni tenutesi lo scorso 28 novembre. 

In data 2 dicembre il capo della Commissione elettorale indipendente Youssouf Bakayoko aveva confermato la vittoria, poi decretata dal Consiglio Costituzionale del Paese, di Ouattara al ballottaggio con 54, 1 punti percentuali contro i 45,9 del presidente uscente, il quale, rifiutando di conoscere la vittoria dell’avversario, ha rovesciato i risultati delle urne portando se stesso al 51%, deciso a non cedere il testimone di governo.

Il presidente ivoriano uscente Laurent Gbagbo
Pronta la sanzione dell’Unione Africana alla Costa d'Avorio, estromessa da qualsiasi attivita targata UA fintanto che il potere non sarà passato effettivamente al presidente democraticamente eletto. Altrettanto dura la risposta dell’Unione Europea, la quale ha previsto delle misure restrittive nei confronti di Laurent Gbagbo e di alcuni membri della sua famiglia, come il blocco dei visti e il congelamento dei beni.

Che il clima all’interno del Paese si fosse fatto incandescente lo dimostrano gli episodi di guerriglia urbana verificatisi lo scorso 16 dicembre ad Abdjan con un bilancio di 9 morti e altrettanti feriti, secondo Amnesty International. In quell-occasione centinaia di sostenitori di Alassane Ouattara, in piazza per rivendicare la vittoria elettorale, si sono scontrati duramente con le forze dell’ordine, fedeli al presidente uscente.

Intanto l’Organizzazione delle Nazioni Unite, che non riconosce la “vittoria” del presidente Gbagbo e anzi si è schierata apertamente con Ouattara, ha predisposto il prolungamento di 6 mesi del mandato della missione ONU in Costa d-Avorio (UNOCI), creata nel 2004 per consentire di applicare gli accordi di pace a seguito della guerra civile del settembre 2002.

Guillaume Soro, premier del governo legittimo di Ouattara, invoca già da diversi giorni l’uso della forza da parte della comunità internazionale contro il governo uscente Gbagbo, vista l’inefficacia, a sua detta, di sanzoni e pressioni in atto ormai da inizio dicembre. “Dopo tutta la pressione internazionale e le sanzioni che non hanno prodotto alcun effetto su Gbagbo, è evidente che resta un'unica soluzione, quella della forza”. 

Il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon ha inoltre chiesto agli stati membri di fornire aiuti alla missione dei Caschi Blu per facilitare la gestione di una situazione già di per sé difficile.
Sempre secondo l’ONU Tra il 16 ed il 21 dicembre ci sarebbero stati nel Paese 90 casi di tortura, 471 arresti, 24 scomparse. Le forze fedeli al presidente uscente hanno anche negli ultimi giorni posto sotto assedio il Quartier generale di Ouattara, alimentando ulteriormente le tensioni nel Paese dopo i vari attacchi ai convogli ONU avvenuti precedentemente per indurre l’UNOCI a lasciare il Paese.

Intanto sono oltre 19.000 le persone in fuga principalmente verso la Liberia, secondo l-Alto Commissariato ONU per i Rifugiati (UNHCR) tra cui figurano in prevalenza donne e bambini, oltre che sostenitori sia di Ouattara, sia di Gbagbo.

E’ notizia del 4 gennaio scorso la decisione del presidente uscente ivoriano di accettare di negoziare per arrivare ad una soluzione pacifica della crisi politica in cui versa il Paese, impegnandosi anche a togliere le forze a lui fedeli dai pressi del Quartier Generale di Ouattara ad Abidjan, un importante centro dello stato.

Il presidente democraticamente eletto Alassane Ouattara ha tuttavia respinto l’offerta di dialogo pacifico di Gbabgo, invitando con forza il rivale a lasciare il potere nel rispetto del risultato delle urne.
La situazione configuratasi nelle ultime ore vede dunque il presidente uscente, sordo a qualsiasi richiamo al riconoscimento della sconfitta elettorale, intenzionato a sfruttare a proprio vantaggio il “braccio di ferro” con le forze di Ouattara che lui stesso ha contribuito a creare, forte dell’appoggio di una parte importante della popolazione ivoriana e, elemento da non trascurare, delle forze di polizia.
D’altro canto la prospettiva di un’apertura di negoziati volti a sbloccare la situazione, da un paio di giorni in fase di stallo, l’intervento militare, che era stato annunciato nei giorni scorsi dal CEDEAO, composto da mediatori dell’Unione Africana e della Comunità Economica degli Stati dell’Africa occidentale, in caso Gbagbo non si fosse fatto da parte, perderebbe credito, rimanendo comunque una semplice possibilità.

Forze dell'ordine ivoriane, fedeli a Gbagbo.


Per aggiornamenti in tempo reale: The Guardian

M.S.


Julian Assange risponde alle tue domande

21 dicembre 2010 · 0 Comments

Il fondatore di Wikyleaks, Julian Assange risponde alle domande dei lettori sul rilascio di più di 250 000 documenti della diplmazia americana


Fwoggie: Tu hai il passaporto australiano, vorresti tornare nel tuo paese oppure ora è fuori questione a causa della possibilità di essere arrastato al tuo arrivo per il rilascio dei documenti relativi ai diplomatici australiani e alla politica?

Assange: Io sono un cittadino australiano e mi manca molto il mio paese. Tuttavia, durante le ultime settimane, il Primo Ministro Julia Gillard e il Procuratore generale Robert Mc Clelland hanno messo in chiaro che non solo il mio ritorno è impossibile, ma che stanno lavorando attivamente con il Governo degli Stati Uniti per aiutarli nei suoi attacchi contro la mia persona e la nostra gente. Questo mette in discussione che cosa significhi realmente essere un cittadino australiano – non significa forse nulla?O dobbiamo essere trattati tutti come David Hicks alla prima occasione possibile, in modo che politici e diplomatici australiani possano essere invitati ai migliori cocktail party all’Ambasciata degli Stati Uniti?

Girish89: come pensate di aver cambiato la storia del mondo? E se avete richiamato tutta questa attenzione, la talpa o la fonte non dovrebbe ricevere una parola di elogio da voi?

Assange: Negli ultimi quattro anni, uno dei nostri obiettivi è stato quello di incoraggiare le fonti che corrono rischi reali e senza i cui sforzi i giornalisti non sarebbero nulla. Se è vero infatti, come sostenuto dal Pentagono, che il giovane soldato – Bradley Manning – sta dietro ad alcune delle nostre informazioni più recenti, allora egli è senza dubbio un eroe.

Daithi: avete rilasciato, o rilascerete documenti con i nomi degli informatori afghani o qualsiasi altra cosa in questo modo? Siete disposti a censurare (scusate il termine) i nomi delle persone che sono in territori in pericolo di rappresaglie?Comunque credo che la storia vi assolva. Ben fatto!

Assange: Wikileaks ha una storia editoriale di quattro anni. Durante questo periodo non c’è mai stata nessuna dichiarazione credibile, anche da organizzazioni come il Pentagono, che anche una sola persona abbia ricevuto dei danni a causa della nostra attività. Questo nonostante la tanto ricercata manipolazione e il tentativo di portare le persone ad una conclusione contro-fattuale. Non ci aspettiamo alcun cambiamento al riguardo.

Distrot: il Dipartimento di Stato sta rimurginando la questione se tu sia un giornalista o meno. Sei un giornalista?

Assange: sono stato coautore di un libro di saggistica per la prima volta a 25 anni. Ho collaborato a documentari, con giornali, televisioni ed internet da allora. Tuttavia non è importante discutere sul fatto se io sia un giornalista o meno, o su come il nostro popolo misteriosamente presuma si cessi di essere giornalisti quando si inizia a collaborare con la nostra organizzazione. Anche se scrivo ancora, il mio ruolo è quello di editore e redattore capo che organizza e dirige altri giornalisti.

Achanth: Mr Assange, vi sono mai stati trasmessi dei domcumenti riguardanti gli UFO o gli extraterrestri?

Assange: molti tipi strani ci hanno inviato mail sugli Ufo o su come hanno scoperto di essere l’anti-cristo perlando con la loro ex moglie ad una festa in giardino su un vaso di piante. Tuttavia, in questi documenti non vengono soddisfatte due delle nostre regole generali di pubblicazione: 1.che il mittente non sia l’autore dei documenti 2.che i documenti siano originali. Tuttavia, vale la pena notare che in alcune parti dell’archivio cablegate ancora da pubblicare vi sono riferimenti agli Ufo.

Gnosticheresy: cosa è successo a tutti gli altri documenti che si trovavano su Wikileaks prima di questa serie di “megaleaks”?Li metterete di nuovo online (difficoltà tecniche permettendo)?

Assange: molti di questi documenti sono ancora disponibili su mirror.wikileaks.info e il resto sarà nuovamente disponibile non appena troveremo un momento per far fronte alle difficoltà tecniche. Da Aprile di quest’anno il nostro programma di lavoro non è stato il nostro, ma è stato un programma incentrato sulle mosse di elementi abusivi del Governo degli Stati Uniti contro di noi. Ma vi assicuro che sono profondamente infelice per il fatto che i tre anni e mezzo del mio lavoro e di quello degli altri non sia facilmente disponibile o consultabile dal pubblico.

Cris Shutlard: ti aspettavi questo livello di impatto in tutto il mondo? Temi per la tua sicurezza?

Assange: ho sempre creduto che Wikileaks come concetto avrebbe dovuto avere un ruolo globale e in qualche misura era chiaro ciò che stava avvenendo, quando nel 2007 ha cambiato il risultato generale delle elezioni in Kenya. Pensavo ci sarebbero voluti due anni, invece di quattro, per veder riconosciuto questo ruolo importante, così siamo un pò in ritardo e abbiamo ancora molto lavoro da fare. Le minacce contro la nostra vita sono di dominio pubblico, però stiamo prendendo le precauzioni del caso nella misura in cui siamo capaci quando si tratta di una superpotenza.  

Janthony: Julian, sono un ex diplomatico britannico. Nel corso delle mie ex funzioni ho aiutato a coordinare l’azione multilaterale nei confronti di un brutale regime nei balcani, ad irrogare sanzioni ad uno stato in cui vi era la minaccia di una pulizia etnica, e negoziato un programma di riduzione del debito per una nazione impoverita. Niente di tutto ciò sarebbe stato possibile senza la sicurezza e la segretezza della corrispondenza diplomatica, e la tutela di questa corrispondenza dalla pubblicazione ai sensi delle leggi del Regno Unito e di molti altri stati liberali e democratici. Un’ambasciata che non può offrire consulenza in modo sicuro o passare i messaggi di ritorno a Londra, è un’ambasciata che non può funzionare. La diplomazia non può funzionare senza la discrezione e la protezione delle fonti. Questo vale per il Regno Unito e per l’ONU, così come per gli Stati Uniti. Con la pubblicazione di questo enorme volume di corrispondenza, Wikileaks non sta mettendo in luce casi illeciti concreti, ma sta minando l’intero processo diplomatico. Se è possibile pubblicare i cables degli Stati Uniti, allora si possono pubblicare i telegrammi inglesi e le mail delle Nazioni Unite. La mia domanda è: perché non dovremmo ritenerti personalmente responsabile quando una crisi internazionale non può essere risolta perché la diplomazia non può funzionare?

Assange: se accorciate la lunga lettera editoriale alla singola domanda effettivamente posta, sarò felice di dargli la mia attenzione.

Cargun: Mr Assange, può spiegare la consura delle identità come xxxx nei documenti rivelati? Alcune identità critiche sono state lasciate così come sono, mentre alcune sono nascoste dall’xxxx. Alcuni documenti sono solo parzialmente rivelati. Chi può prendere una decisione così critica? Da quanto ne so la vostra richiesta di aiuto è stata respinta dal Dipartimento di Stato americano. C’è un ordine nel rilascio dei documenti o sono selezionati in modo casuale? Grazie.

Assange: i cables che abbiamo rilasciato corrispondono a storie pubblicate dai nostri principali partner media e da noi stessi. Sono stati redatti dai giornalisti lavorando sulle storie, quindi queste persone devono conoscere bene il materiale per poter scrivere su di esso. Le redazioni sono poi riviste da almeno un altro editore o giornalista, noi passiamo in rassegna i campioni forniti dalle altre organizzazioni per assicurarci che il processo funzioni.

Rszopa: fastidioso come può essere, il DdoS (nota: genere di attacco nel quale i cosiddetti pirati attivano un numero elevatissimo di false richieste da più macchine allo stesso server consumando le risorse del sistema e di rete del firnitore del servizio) sembra essere una buona pubblicità (se non altro si aggiunge alla vostra credibilità). Sei d’accrodo? L’avevate pianificato? Grazie per quello che state facendo.

Assange: dal 2007 abbiamo deliberatamente posto alcuni dei nostri server in giurisdizioni che sospettavamo soffrire di un deficit di libertà di parola, al fine di separare la retorica dalla realtà. Amazon è stato uno di questi casi.

Abeherrera: hai iniziato qualcosa che nessuno può più fermare. L’inizio di un nuovo mondo. Ricorda che la comunità sta con voi e vi sostiene (dalla Slovacchia). Avete fughe di notizie sull’ACTA?(Accordo commerciale anti contraffazione)

Assange: sì ne abbiamo, un accordo commerciale che è come un cavallo di Troia progettato fin dall’inizio per soddisfare i grandi operatori nel settore statunitense del copyright e dei brevetti. In realtà, è stato Wikileaks che per primo ha attirato l’attenzione della gente sull’ACTA con una fuga di notizie.

People1st: Tom Flanagan, un ex anziano consigliere del Primo Mnistro canadese, ha recentemente dichiarato “Penso che Assange dovrebbe essere assassinato....Penso che Obama dovrebbe ingaggiare qualcuno per ucciderlo..Non mi sentirò infelice se Assange scompare”. Come ti senti al riguardo?

Assange: è giusto che il Signor Flanagan le altre persone che formulano queste gravi dichiarazioni debbano essere accusati di istigazione all’omicidio.

Isopod: Julian, perché credi sia necessario dare un volto a Wikileaks? Non pensi che sarebbe meglio se l’organizzazione fosse anonima? Tutta questa discussione è diventata molto personale e si è ridotta a te: “Julian Assange lascia trapelare documenti”, “Julian Assange è un terrorista”, “Julian Assange accusato di aver violentato una donna”, “Julian Assange dovrebbe essere assassinato” eccetera. Nessuno parla più di Wikileaks come organizzazione. Molti non si rendono nemmeno conto che ci sono anche altre persone dietro Wikileaks. E questo, secondo me, rende Wikileaks vulnerabile, perché consente di sostenere i vostri avversari ad hominem. Se loro convincono la gente che tu sei il male, un terrorista stupra donne, allora la credibilità di Wikileaks ne risentirà. Inoltre, con il dovuto rispetto per quello che hai fatto, penso sia ingiusto verso tutte le altre persone coraggiose che lavorano sodo dietro le quinte di Wikileaks.

Assange: questa è una domanda interessante. Originariamente ho cercato di far sì che l’organizzazione non avesse un volto, perché non volevo che gli ego partecipassero alle nostre attività. Questo ha fatto seguito alla tradizione dei matematici francesi anonimi, che scrissero sotto un anonimo collettivo il “Bourbaki”. Tuttavia ciò ha portato ad una terribile curiosità nei nostri confronti e ad individui che sostenevano di rasseprentarci. Alla fine qualcuno doveva mostrarsi responsabile verso il pubblico e solo una leadership che è disposta a mostrarsi pubblicamente coraggiosa può effettivamente suggerire che le fonti corrono dei rischi per un bene più grande. In questo processo, sono diventato il parafulmine. Ho ricevuto attacchi ingiustificati su ogni aspetto della mia vita, ma ho anche ottenuto credito come una sorta di bilanciamento di forza.

Tburgi: i governi occidentali rivendicano l’autorità morale di avere le garanzie giuridiche per una stampa libera. Le minacce di sanzioni legali contro Wikileaks ti sembrano indebolire questa affermazione?(La stampa deve essere protetta tranne per ciò che risulta impopolare per uno stato?Se essere stati sanzionati è la prova che siete un’organizzazione mediatica e quindi in grado di rivendicare il diritto di libertà di stampa, la situazione sembra essere la stessa sia nei regimi autpritari che in occidente). Sei d’accordo che i governi occidentali rischiano di perdere l’autorità morale anche attaccando wikileaks?Grazie, Tim Burgi. Vancouver Canada.

Assange: l’occidente ha fiscalizzato i suoi rapporti di forza di base attraverso una rete di contatti, crediti, con le partecipazioni bancarie e così via. In un ambiente del genere è facile per la parola essere “libera”, perché un cambiamento nella volontà politica raramente porta a un cambiamento di questi strumenti di base. La parola occidentale è un qualcosa che raramente ha effetto sul potere, è libera come i tassi o gli uccelli. In stati come la Cina, vi è una censura dilagante, perché la parola ha potere ed il potere ne ha paura. Dobbiamo sempre esaminare la censura come un segnale economico che rivela la potenzialità della parola in quella giurisdizione. Gli attacchi contro di noi da parte degli Stati Uniti indica una grande speranza, indica che il discorso è abbastanza potente da rompere il blocco fiscale.

Rajiv1857: Salve. Il gioco da cui siete stati presi si può vincere? Tecnicamente, si può continuare a giocare a nascondino con i poteri quando i servizi e i fornitori dei servizi sono direttamente o indirettamente sotto il controllo del Governo o vulnerabili a pressioni come Amazon? Inoltre se venite scoperti – anche in modo tecnico e non fisico – quali sono le alternative per il vostro materiale? Esiste una “seconda linea” di attivisti sul posto che potrebbero continuare la campagna?Il vostro materiale è dispero in modo tale che scovare una cache non indichi per forza la fine del gioco?

Assange: L’archivio del cable gate è stato diffuso, insieme ad altro materiale significativo sugli Stati Uniti e su altri Paesi, a più di 100 000 persone in forma crittografata. Se succede qualcosa a noi, le parti fondamentali verranno rilasciate automaticamente. Inoltre, gli archivi del cable gate sono nelle mani di multiple organizzazioni di notizie. Sarà la storia a vincere. Il mondo sarà elevato a posto migliore. Riusciremo a sopravvivere? Questo dipende da voi. 

Articolo tratto da "The guardian"

Uccidere un talebano costa 50 Milioni di dollari, uccidere un soldato della Nato ne costa 50.000

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Perché il Pentagono e la Nato stanno mandando in bancarotta gli Stati Uniti?

Il complesso militare-industriale è una bestia vorace che richiede la sua dose quotidiana ai contribuenti americani.

Il costo è di 50 000 dollari per ogni soldato della Nato ucciso e di 50 Milioni di dollari per ogni talebano ucciso. E’ quindi 1000 volte più economico uccidere un soldato della Nato; un fatto che non sembra preoccupare il Pentagono, la leadership della Nato o i ministri della difesa europei.


Il 30 settembre 2010, Kabulpress ha pubblicato un articolo di questo autore (Matthew Nasuti), fornendo i numeri dei talebani uccisi all’anno (2.000) divisi per una porzione dei costi diretti che il Pentagono spende ogni anno in Afghanistan (100 Miliardi di Dollari). La statistica che ne risulta suggerisce che il costo per ogni talebano ucciso è di 50 Milioni di Dollari. Questo numero è approssimativo. Se tutti i costi della Nato e degli Americani (diretti ed indiretti) fossero stati inculsi, l’analisti avrebbe rilevato che il costo effettivo è di circa 150 Milioni di Dollari.

Il presente articolo esamina la spesa da parte dei talebani, al fine di stabilire quanto costa uccidere un soldato della Nato. La Brookings Institution è la società di consulenza con il miglior accesso politico all’amministazione Obama e al Dipartimento di Stato Americano. Nel Settembre del 2009 ha pubblicato una relazione sul reddito annuale dei talebani, basato in parte sui dati raccolti dal Congressional Research Service.  Brooking stima che il reddito annuale dei talebani sia tra i 140 e i 200 Milioni di Dollari. I talebani hanno già causato 600 morti tra i soldati della Nato e più del doppio di questo numero di incidenti mortali all’esercito afghano e al personale di polizia. Entro la fine dell’anno, si prevede che il numero totale dei morti arrivi a 3.000. La matematica pourtroppo è facile. Supponendo che le entrate dei talebani siano di 150 Milioni di Dollari diviso 3.000 il risultato sarebbe 5.000 per ogni soldato afghano o della Nato ucciso.


Il portavoce del Pentagono Ten.Col. John L. Dorrian, reagnedo a questi parametri, ha detto a Bill Morris di AOL News che la stampa di Kabul ha usato una “logica semplificata” (il che è vero). Ma “semplice” non significa in alcun modo impreciso. Questi calcoli rimangono comunque strumenti utili per valutare le pratiche del Pentagono.

Il Pentagono non gradisce i parametri forniti da questo autore, perché rivelano l’incredibile spreco nella guerra del Pentagono e della Nato. Entrambre le entità, e i singoli Paesi che hanno contribuito con le loro truppe nella guerra in Afghanistan, sembrano incuranti della crisi economica globale. Stanno spendendo i soldi delle tasse dei loro cittadini.

Per esempio:

-mezzo Miliardo di Dollari sono stati stanziati per la fornitura di un anno di energia elettrica temporanea ad alcune zone di Kandahar. Questo esercizio del “villaggio Potempikin”, che non è affatto sostenibile, è progettato per mostrare l’illusione del progresso.

-La Nato, secondo il New York Times, sta utilizzando più di un milione di galloni al giorno di benzina e Disel, per un costo di più di 300.00 Dollari a gallone.

-il governo degli Stati Uniti ha pagato oltre tre Miliardi di Dollari ad alcune discutibili aziende del Kirghizistan per la fornitura di carburante per la base aerea di Manas, punto focale per traghettare le truppe della Nato e l’equipaggiamento di alto valore in Afghanistan. In un periodo di 24 ore, il 18 febbraio 2010, la base aerea di Manas ha utilizzato l’incredibile quantità di 544.578 di galloni di carburante. Nell’agosto del 2008, l’esercito americano ha aggiudicato un contratto 720 Milioni di Dollari alla “Red Star Enterprises Ltd.”, senza che vi fosse concorrenza. Questa ed altre società sono state segnalate per avere legami con le famiglie regnanti del Paese, e i pagamenti del contratto erano considerate tangenti indirette, anche se questo violerebbe l’U.S. Foreign Corrupt Practices Act. Il totale dei costi diretti ed indiretti per soddisfare le stravaganti esigenze logistiche delle forze Nato in Afghanistan non sono note.

-Più di 150.000 civili con contratto personale stanno attualmente cucinando, pulendo e lavorando per supportare le forze Nato in Afghanistan. Ciò equivale ad un servitore personale per ogni soldato. Non si era mai visto un livello di lusso simile in guerra.

-Kabul Press ha pubblicato decine di rapporti investigativi che dettagliavano vaste frodi, sprechi ed una cattiva gestione da parte del Pentagono, dell’Isaf, dell’Usaid e dell’ambasciata statunitense a Kabul. Altre decine di rapporti sono stati pubblicati dall’ispettore speciale generale per la ricostruzione dell’Afghanistan (Sigar). Ad oggi, nessuno è ritenuto responsabile. La mancanza di responsabilità fiscale all’interno della Nato e delle autorità statunitensi in Afghanistan è stupefacente.


Questo autore ha pubblicato una storia il 26 Settembre 2010, dal titolo “ragazza afghana uccisa da un colpo di mortaio americano”. Racconta unn episodio dello scorso Luglio, in cui un insorto a Marjah ha sparato contro i Marines americani e poi è scomparso. I marines in cambio, hanno sparato una raffica di colpi di mortaio uccidendo una ragazzina di 14 anni. L’articolo precisa che una raffica di mortaio costa in totale 10.000 Dollari all’acquisto. Questo non include le spese di spedizione in Afghanistan, che possono veder duplicato se non triplicato quel costo. Questo episodio, in cui i talebani spendono centesimi mentre la Nato spreca 10.000 Dollari, riassume il problema.
In conclusione, le metriche sviluppate da questo autore, hanno evidenziato in dettaglio, un livello di spesa da parte delle forze Nato, osceno ed inutile rispetto alla spesa da parte dei talebani. Le truppe Nato sono (per fortuna) difficili da uccidere, ma quando vengono uccisi il costo è tragicamente a buon mercato. Alla nato, oggi, è stato dato un assegno in bianco da spendere come vuole. Ma questo non può continuare.

Per ogni operazione o raid che la Nato lancia in Afghanistan, i media internazionali dovrebbero esaminare i costi contro i benifici e chiedersi: “A cosa ha portato l’operazione e quanto è costato il raid?”, “quali sono stati i costi diretti ed indiretti, compresa l’usura delle attrezzature?”. Le risposte rivelerebbero che, a meno che non vi sia una massiccia riforma nella guerra degli eserciti della Nato, l’Occidente non può continuare a permettersi di combattere i talebani.


Articolo tratto da www.kabulpress.org

“NÌGURI”, o neri che dir si voglia

20 dicembre 2010 · 0 Comments

“Nìguri” è il termine usato per indicare “neri” nel dialetto calabrese.
Ed è il titolo del documentario, uscito nel 2009, che mostra le reazioni del piccolo paese di Sant’Anna, nel crotonese, nel momento in cui gli abitanti si trovano a dover usare questa parola molto più frequentemente di quanto non si aspettassero.
Ma non solo le voci dei residenti.
Anche le storie e le volontà degli stessi “nìguri”, bloccati per mesi in un vero e proprio limbo costruito dallo Stato italiano.

locandina del film "Niguri"
Sant’Anna è sede di uno dei sette Centri di Accoglienza che troviamo in territorio italiano. Come possiamo leggere sul sito del Ministero dell’Interno , essi “sono strutture destinate a garantire un primo soccorso allo straniero irregolare rintracciato sul territorio nazionale. L’accoglienza nel centro è limitata al tempo strettamente necessario per stabilire l'identità e la legittimità della sua permanenza sul territorio o per disporne l'allontanamento”.
Dal documentario apprendiamo che questi immigrati aspettano anche tre o quattro mesi il foglio di carta che deciderà il loro futuro. Può sancire la possibilità di rimanere in Italia, oppure l’espulsione dal CPA e l’obbligo di lasciare il Paese entro cinque giorni dal rilascio del documento.
In sostanza la loro definitiva condizione di  irregolarità nel territorio italiano.

Quello che vediamo è una realtà desolata fatta di uomini e donne che impiegano il loro tempo a girovagare per le strade, a bere in casolari abbandonati e a prostituirsi.
Per la normativa vigente, hanno la possibilità di uscire dal Centro dalle otto della mattina alle otto di sera, ma non quella di dedicarsi a qualsivoglia attività lavorativa.
Gli immigrati intervistati se ne vogliono andare, chiedono il loro riconoscimento del “diritto d’asilo” per iniziare una vita vera, anche fuori dall’Italia. Dalle loro parole appare evidente che quella condizione di attesa protratta per mesi non è vita.

Ma il film ci mostra anche le ragioni del paese, circa 500 abitanti che si trovano all’improvviso a convivere con questa realtà degradata. Le voci non risparmiano severe critiche anche alle istituzioni, assenti in un territorio dove invece ne servirebbe una presenza massiccia.

“Nìguri”, equilibrato e ben girato, rappresenta le paure, la diffidenza, la riluttanza ad accogliere il diverso in un paesino della Calabria specchio della situazione odierna italiana. Ma si sofferma anche sull’altra prospettiva, quella degli immigrati, delle loro storie e delle loro speranze.
Il regista è Antonio Martino, bolognese d’adozione, ma cresciuto nello stesso villaggio in cui è ambientato il suo documentario. Con “Nìguri” Antonio Martino vince il Premio Miglior Documentario nel festival “Hai visto mai?”, diretto da Luca Zingaretti, tenutosi nel maggio 2010 a Siena.



M.B.


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