Come intervenire in Libia

22 marzo 2011 · 0 Comments

Riportiamo di seguito un articolo ad opera di Rami Khouri apparso sul Daily Star, quotidiano libanese di cui l’autore è un noto columnist, che appare interessante per analizzare il confuso quadro delineatosi a livello internazionale negli ultimi giorni e complicatosi ulteriormente a seguito dell’intervento militare delle forze occidentali, guidate dalla Francia, in Libia.

E’ davvero pensabile agire mediante azioni di guerra per preservare la popolazione civile libica dalla feroce repressione del leader Gheddafi? L’idea di “guerra umanitaria” non rappresenta una contraddizione in termini?

Perché tanto interesse e rapidità da parte degli stati occidentali ad intervenire militarmente contro Gheddafi? 

Cosa dovrebbe fare la comunità internazionale rispetto alla crisi libica. Il divieto di ingerenza negli affari interni dello stato libico fino a che punto può limitarne l’azione?

Come intervenire in Libia

di Rami Khouri

L’idea che le potenze straniere debbano intervenire in Libia per evitare che Muammar Gheddafi massacri i civili ha generato un ampio dibattito in tutto il mondo. La questione è particolarmente complicata perché impone di conciliare aspetti umanitari, giuridici, politici, militari e logistici.
E lo diventa ancora di più se prendiamo in considerazione la possibilità di un intervento statunitense, considerati i precedenti dell’unilateralismo di Washington e la loro doppia morale in altri casi di sofferenze inflitte ai civili da altri governi del Medio Oriente.
Dopo quello che è successo in Ruanda, Kosovo e Bosnia Erzegovina negli ultimi vent’anni, l’obbligo della comunità internazionale di proteggere i civili da violenze, omicidi, pulizie etniche è ormai ampiamente riconosciuto. Come e quando metterlo in atto, e cosa fa scattare un intervento simile, restano questioni molto discusse. La situazione libica rende il problema ancora una volta reale e urgente.
La mia opinione è che un intervento internazionale in Libia sia opportuno, dato che la maggioranza dei suoi cittadini ha espresso il desiderio di mettere fine al regime di Gheddafi e di stabilire un sistema di governo davvero partecipativo, rappresentativo e democratico. Però un intervento del genere, sia esso di natura politica, umanitaria o militare, dovrebbe avvenire solo con tre presupposti: una richiesta di aiuto davvero credibile da parte del popolo libico, il sostegno arabo-islamico-africano – ottenuto attraverso le organizzazioni internazionali che radunano i paesi della regione – e la legittimità derivante da una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu. 

Cercare alleati
Il primo e l’ultimo presupposto probabilmente esistono già, ma ottenere l’autorizzazione dei paesi arabi e africani a un intervento straniero potrebbe essere difficile: la linea politica di organizzazioni come la Lega araba viene decisa dai governi, che probabilmente sono restii ad accettare un intervento, perché in futuro potrebbero trovarsi nella stessa situazione della Libia.
Se l’approvazione dei paesi arabi è difficile da ottenere attraverso la Lega araba, forse sarebbe meglio puntare sui singoli stati, invece di aspettare il consenso collettivo. I dettagli di questa operazione potrebbero essere discussi per mesi, ma ogni giorno che passa i libici subiscono nuove atrocità per mano del regime di Gheddafi.
Se si vuole fermare questo massacro e trasformare il desiderio del popolo libico in un cambiamento di governo e di classe dirigente bisogna decidere in fretta. Il malgoverno, le violazioni dei diritti umani e le atrocità in atto in tutta la regione richiedono risposte diverse.
Oggi la Libia ci ricorda che certe questioni vengono sollevate solo durante le crisi, quando le violenze rendono più pressante l’urgenza di intervenire e di proteggere i civili. In alcuni paesi arabi i governi sono stati responsabili della morte di decine di migliaia di persone e in certi casi, come quello del Sudan, di milioni di cittadini.
Sempre nella regione, Israele ha attaccato brutalmente le terre libanesi e palestinesi, ha ucciso migliaia di persone, ne ha imprigionate altre migliaia, colonizzato le terre palestinesi con la pulizia etnica, e assediato la Striscia di Gaza al punto che i bambini della zona sono rachitici e malnutriti.


E tutti gli altri?
Perché la comunità internazionale dovrebbe intervenire in Libia se non fa nulla per fermare le sofferenze causate dai governi in altre parti del mondo arabo? Perché imporre sanzioni all’Iran per paura di quello che Teheran potrebbe fare con l’energia nucleare, quando la stessa comunità internazionale tace sulle violazioni dei diritti umani in molti paesi della regione?
La mia risposta a questi interrogativi è che il popolo libico in lotta per la libertà ha bisogno di aiuto e se un intervento militare è difficile da realizzare, devono essere subito usate tutte le altre forme di solidarietà: riconoscere il Consiglio nazionale di opposizione come legittimo rappresentante del popolo libico, mandare grandi quantità di aiuti umanitari e di altro genere, usare tutti gli strumenti messi a disposizione dal diritto internazionale per far pressione sul regime di Gheddafi e, se il Consiglio nazionale lo richiederà, inviare delle armi agli insorti.
È chiaro che il regime di Gheddafi ha perso ogni legittimità agli occhi del suo popolo e della comunità internazionale. Per questo il mondo dovrebbe agire con fermezza a livello politico e sostenere il Consiglio nazionale per favorire il passaggio a un nuovo sistema di governo. Un’azione militare straniera sarebbe molto più complicata, perché usare la forza contro la Libia sarebbe un atto di guerra che metterebbe in crisi il diritto internazionale.
Oggi il mondo deve agire subito sul terreno politico per sostenere l’opposizione libica, fino a quando la comunità internazionale non avrà la legittimazione per usare la forza militare in caso di necessità.

Traduzione di Bruna Tortorella per Internazionale del 17 marzo 2011


Aggiornamenti sulla situazione in Libia: Al Jazeera

Uomini, donne e bambini ecco perché vi sterminiamo

20 gennaio 2011 · 0 Comments

di Flore Murard-Yovanovitch



Perché un’immane strage di 300.000 civili, come quella causata dalle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki in un Giappone che aveva già deciso di arrendersi, non è comunemente considerata un «genocidio»? E il Presidente Truman non visto come assassino di massa al pari di Hitler, Stalin, Mao o Pol Pot? 


È con questa domanda provocatoria che Daniel J. Goldhagen, storico di fama mondiale e già autore del controverso bestseller I volenterosi carnefici di Hitler (1996), apre uno dei più esaustivi e potenti saggi sugli eccidi di massa del 20° secolo: Peggio della guerra. Lo sterminio di massa nella storia dell’umanità. Gli stermini di massa avrebbero causato approssimativamente tra i 127 e i 175 milioni di vittime (se si tiene conto anche delle carestie organizzate): più dei caduti delle due guerre mondiali. Tanto per cominciare. 


ESSERI UMANI CONTRO Così arriva subito la domanda di tutti i tempi: perché degli esseri umani scelgono di eliminare altri esseri umani, compresi donne e bambini? Lo storico americano si addentra negli agghiaccianti meccanismi degli eccidi di armeni, curdi, maumau, maya, bosniaci musulmani e di tutti coloro che Stalin, Mao o gli Khmer rossi hanno considerato dissidenti... E svela le numerose tecniche, oltre alla «soluzione finale», per eliminare, anche a lungo termine, altri gruppi con conversioni forzate, marce della morte, campi e Gulag, purghe, sterilizzazioni e stupri di massa....


Se l’Olocausto è stato il genocidio per antonomasia - per l’entità dell’annientamento totale degli ebrei e senza precedenti nella Storia - Goldhagen ritiene che stragi di massa di minore portata hanno avuto meccanismi non molto diversi. Prendendo in contropiede la storiografia ufficiale, lo studioso vede nell’«eliminazionismo» una costante buia della Storia. 


BASTANO I MACHETE E non è la «modernità» (tecnologia, burocrazia e camere a gas), come diffusamente ritenuto, ad aver permesso ciascun genocidio: «Stentavamo a capire che bastavano machete», come confessa l’ex-segretario dell’ONU Boutros-Ghali nel caso del mancato riconoscimento del colossale eccidio di massa ruandese. Né pseudo cause socio-strutturali, come dimostra il caso del Sudafrica, dove anni di Apartheid non sfociarono, all’ascesa dei «neri» al potere, in un attacco contro i «bianchi», bensì nella strada della riconciliazione. Né tantomeno una presunta natura umana «barbarica», che si presumerebbe annidata in tutti noi e che farebbe di tutti noi potenziali massacratori.


Goldhagen dimostra invece che l’avvio di un genocidio è sempre una «strategia» politica per la redistribuzione del potere, un «programma di morte» pianificato a tavolino. Ben lontano dall'essere sfogo o esplosione di follia improvvisa, è una scelta consapevole: «razionale».

CALCOLO RAZIONALE Questa nuova e radicale lettura dello sterminio come «calcolo politico lucido» è uno degli aspetti più interessanti di questo saggio che, dati alla mano, confuta e spazza via false quanto radicate idee comuni sula presunta «irrazionalità» delle aggressioni sterminazioniste. 


A giocare un ruolo scatenante fondamentale sono infatti le visioni dei carnefici circa una presunta «nocività» delle potenziali vittime: in primis l’ideologia malata che fa dell’altro un morbo da «sradicare» per tornare a una presunta «purezza» (Dio, il Volk o la Nazione, ecc). I veri strumenti preparatori: i discorsi che fanno dei nemici «demoni», «sottouomini», «ratti», «serpenti», «babbuini»,«bacilli infetti» (o «pecore nere», come nel recente referendum svizzero anti-stranieri, ndA.). È il processo di «disumanizzazione» dell’altro che porta a trucidarlo: in uno dei capitoli più drammatici del libro, ex-genocidari hutu confessano che non consideravano i tutsi «esseri umani ma scarafaggi»...


TESTIMONIANZE DIRETTE I pregi di questo libro sono immensi: dalle testimonianze dirette raccolte sul campo al rigore delle fonti storiografiche; riporta alla luce stermini dimenticati, come quello del popolo herero dell’Africa sudoccidentale a opera dei coloni tedeschi o dei kikuyu dai britannici, e tanti altri per mano di coloni francesi, belgi, ecc. Senza tralasciare il razzismo che ancora oggi permea la storia «minore» dei popoli «non-bianchi». Domanda dopo domanda, Goldhagen ci porta con genialità, in una indagine che si legge senza fiato, alla radice stessa dello sterminio. E lancia un appello affinché la comunità internazionale si doti di conoscenza, capacità di anticipazione e reale volontà politica per fermare in tempo stragi in corso o latenti, che esploderanno negli anni a venire. Questo libro dovrebbe diventare un manuale per giovani e dirigenti politici, in un’Europa dove fanno la loro riapparizione discorsi xenofobi anti-migranti, espulsioni e deportazioni, che sono e sono sempre stati all'origine di una «cultura» eliminazionista.

l'Unità 8 gennaio 2011

NUOVE RIVELAZIONI WIKILEAKS - «The Bridge to More Organized Crime»

14 gennaio 2011 · 0 Comments

Il ponte per un crimine più organizzato.


Così il console americano a Napoli, Patrick Truhn, intitola un paragrafo dei vari documenti che tra il 2008 e il 2009 invia negli States.
Secondo il diplomatico quindi, sarebbe la mafia uno dei maggiori beneficiari della costruzione del ponte che dovrebbe collegare Sicilia e Calabria. Truhn sottolinea poi che l’infrastruttura «servirà a poco senza massicci investimenti in strade e ferrovie» nelle due regioni.
Quella che disegna è la situazione di un sud-Italia in mano alla mafia, che intimorisce i possibili investitori americani.

La riflessione del diplomatico americano si sposta poi sull’azione dei politici. Citando Saviano, Truhn lamenta uno “scarso impegno a livello nazionale” contro la mafia, elogiando invece “le associazioni imprenditoriali, i gruppi di cittadini e la Chiesa che, almeno in alcune aree, stanno dimostrando promettente impegno nella lotta alla criminalità organizzata”.
Dipinge Saviano come una bussola morale per la lotta alla criminalità organizzata e, fa notare inoltre, come ricorda ai diplomatici statunitensi lo stesso scrittore in un colloquio, come il tema della lotta alla criminalità organizzata sia stato “virtualmente assente dalla campagna elettorale di marzo-aprile” 2008.

Uno dei documenti più interessanti è quello intitolato «La Calabria può essere salvata?».
Una regione controllata su larga scala dall’ ndrangheta, che ha in mano territorio ed economia. “Se la Calabria non fosse parte dell'Italia, sarebbe uno Stato fallito”.
Il console riferisce di un viaggio svoltosi nel novembre 2008 tra le province calabresi.
Prima tappa Catanzaro, dove, dopo numerosi dinieghi, riesce ad incontrare il Presidente della Regione Loiero che “si è lamentato della cattiva immagine della regione e ha evidenziato che la criminalità organizzata, i mercati relativamente inaccessibili e le povere infrastrutture si fondono per scoraggiare gli investimenti nella regione”. Una situazione a cui il politico italiano stesso non è in grado di fornire alcune soluzioni, se non quella di “rendere i prestiti a basso tasso di interesse disponibili, grazie ai fondi strutturali dell’Ue, per le piccole e medie imprese”.

Truhn parla di una regione che “continuerà ed essere una zavorra per il Paese finchè il governo nazionale non dedicherà attenzione e le risorse necessarie per risolvere questi spinosi problemi”.
É il turismo, si legge infine nel dispaccio, che “resta una delle speranze, nonostante le strutture inadeguate (la Salerno-Reggio Calabria è in costruzione da decadi e le connessioni ferroviarie, al di là della costa tirrenica, sono terribili), il degrado ambientale e il crimine organizzato”.

M.B. 

Costa d'Avorio, democrazia cercasi

7 gennaio 2011 · 0 Comments

“Il sequestro e l’assassinio degli avversari politici costituiscono terribili violazioni dei diritti umani, le quali possono e devono essere punite”.  Queste le parole di Rona Peligal, direttore per l’Africa dell’organizzazione non governativa Human Rights Watch, in merito alle vicende delle ultime settimane in Costa d’Avorio.
Negli ultimi giorni dell’anno appena conclusosi, come affermato dalla stessa ONG tramite il suo sito web, forze di sicurezza vicine al presidente uscente ivoriano Laurent Gbagbo, in carica dal 2000, hanno sequestrato e fatto sparire i sostenitori del leader dell’opposizione Alassane Ouattara. 


Il diretto avversario di Gbagbo è considerato dalla pressoché intera comunità internazionale il nuovo legittimo presidente ivoriano, avendo largamente vinto le elezioni tenutesi lo scorso 28 novembre. 

In data 2 dicembre il capo della Commissione elettorale indipendente Youssouf Bakayoko aveva confermato la vittoria, poi decretata dal Consiglio Costituzionale del Paese, di Ouattara al ballottaggio con 54, 1 punti percentuali contro i 45,9 del presidente uscente, il quale, rifiutando di conoscere la vittoria dell’avversario, ha rovesciato i risultati delle urne portando se stesso al 51%, deciso a non cedere il testimone di governo.

Il presidente ivoriano uscente Laurent Gbagbo
Pronta la sanzione dell’Unione Africana alla Costa d'Avorio, estromessa da qualsiasi attivita targata UA fintanto che il potere non sarà passato effettivamente al presidente democraticamente eletto. Altrettanto dura la risposta dell’Unione Europea, la quale ha previsto delle misure restrittive nei confronti di Laurent Gbagbo e di alcuni membri della sua famiglia, come il blocco dei visti e il congelamento dei beni.

Che il clima all’interno del Paese si fosse fatto incandescente lo dimostrano gli episodi di guerriglia urbana verificatisi lo scorso 16 dicembre ad Abdjan con un bilancio di 9 morti e altrettanti feriti, secondo Amnesty International. In quell-occasione centinaia di sostenitori di Alassane Ouattara, in piazza per rivendicare la vittoria elettorale, si sono scontrati duramente con le forze dell’ordine, fedeli al presidente uscente.

Intanto l’Organizzazione delle Nazioni Unite, che non riconosce la “vittoria” del presidente Gbagbo e anzi si è schierata apertamente con Ouattara, ha predisposto il prolungamento di 6 mesi del mandato della missione ONU in Costa d-Avorio (UNOCI), creata nel 2004 per consentire di applicare gli accordi di pace a seguito della guerra civile del settembre 2002.

Guillaume Soro, premier del governo legittimo di Ouattara, invoca già da diversi giorni l’uso della forza da parte della comunità internazionale contro il governo uscente Gbagbo, vista l’inefficacia, a sua detta, di sanzoni e pressioni in atto ormai da inizio dicembre. “Dopo tutta la pressione internazionale e le sanzioni che non hanno prodotto alcun effetto su Gbagbo, è evidente che resta un'unica soluzione, quella della forza”. 

Il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon ha inoltre chiesto agli stati membri di fornire aiuti alla missione dei Caschi Blu per facilitare la gestione di una situazione già di per sé difficile.
Sempre secondo l’ONU Tra il 16 ed il 21 dicembre ci sarebbero stati nel Paese 90 casi di tortura, 471 arresti, 24 scomparse. Le forze fedeli al presidente uscente hanno anche negli ultimi giorni posto sotto assedio il Quartier generale di Ouattara, alimentando ulteriormente le tensioni nel Paese dopo i vari attacchi ai convogli ONU avvenuti precedentemente per indurre l’UNOCI a lasciare il Paese.

Intanto sono oltre 19.000 le persone in fuga principalmente verso la Liberia, secondo l-Alto Commissariato ONU per i Rifugiati (UNHCR) tra cui figurano in prevalenza donne e bambini, oltre che sostenitori sia di Ouattara, sia di Gbagbo.

E’ notizia del 4 gennaio scorso la decisione del presidente uscente ivoriano di accettare di negoziare per arrivare ad una soluzione pacifica della crisi politica in cui versa il Paese, impegnandosi anche a togliere le forze a lui fedeli dai pressi del Quartier Generale di Ouattara ad Abidjan, un importante centro dello stato.

Il presidente democraticamente eletto Alassane Ouattara ha tuttavia respinto l’offerta di dialogo pacifico di Gbabgo, invitando con forza il rivale a lasciare il potere nel rispetto del risultato delle urne.
La situazione configuratasi nelle ultime ore vede dunque il presidente uscente, sordo a qualsiasi richiamo al riconoscimento della sconfitta elettorale, intenzionato a sfruttare a proprio vantaggio il “braccio di ferro” con le forze di Ouattara che lui stesso ha contribuito a creare, forte dell’appoggio di una parte importante della popolazione ivoriana e, elemento da non trascurare, delle forze di polizia.
D’altro canto la prospettiva di un’apertura di negoziati volti a sbloccare la situazione, da un paio di giorni in fase di stallo, l’intervento militare, che era stato annunciato nei giorni scorsi dal CEDEAO, composto da mediatori dell’Unione Africana e della Comunità Economica degli Stati dell’Africa occidentale, in caso Gbagbo non si fosse fatto da parte, perderebbe credito, rimanendo comunque una semplice possibilità.

Forze dell'ordine ivoriane, fedeli a Gbagbo.


Per aggiornamenti in tempo reale: The Guardian

M.S.



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