Julian Assange risponde alle tue domande

21 dicembre 2010 · 0 Comments

Il fondatore di Wikyleaks, Julian Assange risponde alle domande dei lettori sul rilascio di più di 250 000 documenti della diplmazia americana


Fwoggie: Tu hai il passaporto australiano, vorresti tornare nel tuo paese oppure ora è fuori questione a causa della possibilità di essere arrastato al tuo arrivo per il rilascio dei documenti relativi ai diplomatici australiani e alla politica?

Assange: Io sono un cittadino australiano e mi manca molto il mio paese. Tuttavia, durante le ultime settimane, il Primo Ministro Julia Gillard e il Procuratore generale Robert Mc Clelland hanno messo in chiaro che non solo il mio ritorno è impossibile, ma che stanno lavorando attivamente con il Governo degli Stati Uniti per aiutarli nei suoi attacchi contro la mia persona e la nostra gente. Questo mette in discussione che cosa significhi realmente essere un cittadino australiano – non significa forse nulla?O dobbiamo essere trattati tutti come David Hicks alla prima occasione possibile, in modo che politici e diplomatici australiani possano essere invitati ai migliori cocktail party all’Ambasciata degli Stati Uniti?

Girish89: come pensate di aver cambiato la storia del mondo? E se avete richiamato tutta questa attenzione, la talpa o la fonte non dovrebbe ricevere una parola di elogio da voi?

Assange: Negli ultimi quattro anni, uno dei nostri obiettivi è stato quello di incoraggiare le fonti che corrono rischi reali e senza i cui sforzi i giornalisti non sarebbero nulla. Se è vero infatti, come sostenuto dal Pentagono, che il giovane soldato – Bradley Manning – sta dietro ad alcune delle nostre informazioni più recenti, allora egli è senza dubbio un eroe.

Daithi: avete rilasciato, o rilascerete documenti con i nomi degli informatori afghani o qualsiasi altra cosa in questo modo? Siete disposti a censurare (scusate il termine) i nomi delle persone che sono in territori in pericolo di rappresaglie?Comunque credo che la storia vi assolva. Ben fatto!

Assange: Wikileaks ha una storia editoriale di quattro anni. Durante questo periodo non c’è mai stata nessuna dichiarazione credibile, anche da organizzazioni come il Pentagono, che anche una sola persona abbia ricevuto dei danni a causa della nostra attività. Questo nonostante la tanto ricercata manipolazione e il tentativo di portare le persone ad una conclusione contro-fattuale. Non ci aspettiamo alcun cambiamento al riguardo.

Distrot: il Dipartimento di Stato sta rimurginando la questione se tu sia un giornalista o meno. Sei un giornalista?

Assange: sono stato coautore di un libro di saggistica per la prima volta a 25 anni. Ho collaborato a documentari, con giornali, televisioni ed internet da allora. Tuttavia non è importante discutere sul fatto se io sia un giornalista o meno, o su come il nostro popolo misteriosamente presuma si cessi di essere giornalisti quando si inizia a collaborare con la nostra organizzazione. Anche se scrivo ancora, il mio ruolo è quello di editore e redattore capo che organizza e dirige altri giornalisti.

Achanth: Mr Assange, vi sono mai stati trasmessi dei domcumenti riguardanti gli UFO o gli extraterrestri?

Assange: molti tipi strani ci hanno inviato mail sugli Ufo o su come hanno scoperto di essere l’anti-cristo perlando con la loro ex moglie ad una festa in giardino su un vaso di piante. Tuttavia, in questi documenti non vengono soddisfatte due delle nostre regole generali di pubblicazione: 1.che il mittente non sia l’autore dei documenti 2.che i documenti siano originali. Tuttavia, vale la pena notare che in alcune parti dell’archivio cablegate ancora da pubblicare vi sono riferimenti agli Ufo.

Gnosticheresy: cosa è successo a tutti gli altri documenti che si trovavano su Wikileaks prima di questa serie di “megaleaks”?Li metterete di nuovo online (difficoltà tecniche permettendo)?

Assange: molti di questi documenti sono ancora disponibili su mirror.wikileaks.info e il resto sarà nuovamente disponibile non appena troveremo un momento per far fronte alle difficoltà tecniche. Da Aprile di quest’anno il nostro programma di lavoro non è stato il nostro, ma è stato un programma incentrato sulle mosse di elementi abusivi del Governo degli Stati Uniti contro di noi. Ma vi assicuro che sono profondamente infelice per il fatto che i tre anni e mezzo del mio lavoro e di quello degli altri non sia facilmente disponibile o consultabile dal pubblico.

Cris Shutlard: ti aspettavi questo livello di impatto in tutto il mondo? Temi per la tua sicurezza?

Assange: ho sempre creduto che Wikileaks come concetto avrebbe dovuto avere un ruolo globale e in qualche misura era chiaro ciò che stava avvenendo, quando nel 2007 ha cambiato il risultato generale delle elezioni in Kenya. Pensavo ci sarebbero voluti due anni, invece di quattro, per veder riconosciuto questo ruolo importante, così siamo un pò in ritardo e abbiamo ancora molto lavoro da fare. Le minacce contro la nostra vita sono di dominio pubblico, però stiamo prendendo le precauzioni del caso nella misura in cui siamo capaci quando si tratta di una superpotenza.  

Janthony: Julian, sono un ex diplomatico britannico. Nel corso delle mie ex funzioni ho aiutato a coordinare l’azione multilaterale nei confronti di un brutale regime nei balcani, ad irrogare sanzioni ad uno stato in cui vi era la minaccia di una pulizia etnica, e negoziato un programma di riduzione del debito per una nazione impoverita. Niente di tutto ciò sarebbe stato possibile senza la sicurezza e la segretezza della corrispondenza diplomatica, e la tutela di questa corrispondenza dalla pubblicazione ai sensi delle leggi del Regno Unito e di molti altri stati liberali e democratici. Un’ambasciata che non può offrire consulenza in modo sicuro o passare i messaggi di ritorno a Londra, è un’ambasciata che non può funzionare. La diplomazia non può funzionare senza la discrezione e la protezione delle fonti. Questo vale per il Regno Unito e per l’ONU, così come per gli Stati Uniti. Con la pubblicazione di questo enorme volume di corrispondenza, Wikileaks non sta mettendo in luce casi illeciti concreti, ma sta minando l’intero processo diplomatico. Se è possibile pubblicare i cables degli Stati Uniti, allora si possono pubblicare i telegrammi inglesi e le mail delle Nazioni Unite. La mia domanda è: perché non dovremmo ritenerti personalmente responsabile quando una crisi internazionale non può essere risolta perché la diplomazia non può funzionare?

Assange: se accorciate la lunga lettera editoriale alla singola domanda effettivamente posta, sarò felice di dargli la mia attenzione.

Cargun: Mr Assange, può spiegare la consura delle identità come xxxx nei documenti rivelati? Alcune identità critiche sono state lasciate così come sono, mentre alcune sono nascoste dall’xxxx. Alcuni documenti sono solo parzialmente rivelati. Chi può prendere una decisione così critica? Da quanto ne so la vostra richiesta di aiuto è stata respinta dal Dipartimento di Stato americano. C’è un ordine nel rilascio dei documenti o sono selezionati in modo casuale? Grazie.

Assange: i cables che abbiamo rilasciato corrispondono a storie pubblicate dai nostri principali partner media e da noi stessi. Sono stati redatti dai giornalisti lavorando sulle storie, quindi queste persone devono conoscere bene il materiale per poter scrivere su di esso. Le redazioni sono poi riviste da almeno un altro editore o giornalista, noi passiamo in rassegna i campioni forniti dalle altre organizzazioni per assicurarci che il processo funzioni.

Rszopa: fastidioso come può essere, il DdoS (nota: genere di attacco nel quale i cosiddetti pirati attivano un numero elevatissimo di false richieste da più macchine allo stesso server consumando le risorse del sistema e di rete del firnitore del servizio) sembra essere una buona pubblicità (se non altro si aggiunge alla vostra credibilità). Sei d’accrodo? L’avevate pianificato? Grazie per quello che state facendo.

Assange: dal 2007 abbiamo deliberatamente posto alcuni dei nostri server in giurisdizioni che sospettavamo soffrire di un deficit di libertà di parola, al fine di separare la retorica dalla realtà. Amazon è stato uno di questi casi.

Abeherrera: hai iniziato qualcosa che nessuno può più fermare. L’inizio di un nuovo mondo. Ricorda che la comunità sta con voi e vi sostiene (dalla Slovacchia). Avete fughe di notizie sull’ACTA?(Accordo commerciale anti contraffazione)

Assange: sì ne abbiamo, un accordo commerciale che è come un cavallo di Troia progettato fin dall’inizio per soddisfare i grandi operatori nel settore statunitense del copyright e dei brevetti. In realtà, è stato Wikileaks che per primo ha attirato l’attenzione della gente sull’ACTA con una fuga di notizie.

People1st: Tom Flanagan, un ex anziano consigliere del Primo Mnistro canadese, ha recentemente dichiarato “Penso che Assange dovrebbe essere assassinato....Penso che Obama dovrebbe ingaggiare qualcuno per ucciderlo..Non mi sentirò infelice se Assange scompare”. Come ti senti al riguardo?

Assange: è giusto che il Signor Flanagan le altre persone che formulano queste gravi dichiarazioni debbano essere accusati di istigazione all’omicidio.

Isopod: Julian, perché credi sia necessario dare un volto a Wikileaks? Non pensi che sarebbe meglio se l’organizzazione fosse anonima? Tutta questa discussione è diventata molto personale e si è ridotta a te: “Julian Assange lascia trapelare documenti”, “Julian Assange è un terrorista”, “Julian Assange accusato di aver violentato una donna”, “Julian Assange dovrebbe essere assassinato” eccetera. Nessuno parla più di Wikileaks come organizzazione. Molti non si rendono nemmeno conto che ci sono anche altre persone dietro Wikileaks. E questo, secondo me, rende Wikileaks vulnerabile, perché consente di sostenere i vostri avversari ad hominem. Se loro convincono la gente che tu sei il male, un terrorista stupra donne, allora la credibilità di Wikileaks ne risentirà. Inoltre, con il dovuto rispetto per quello che hai fatto, penso sia ingiusto verso tutte le altre persone coraggiose che lavorano sodo dietro le quinte di Wikileaks.

Assange: questa è una domanda interessante. Originariamente ho cercato di far sì che l’organizzazione non avesse un volto, perché non volevo che gli ego partecipassero alle nostre attività. Questo ha fatto seguito alla tradizione dei matematici francesi anonimi, che scrissero sotto un anonimo collettivo il “Bourbaki”. Tuttavia ciò ha portato ad una terribile curiosità nei nostri confronti e ad individui che sostenevano di rasseprentarci. Alla fine qualcuno doveva mostrarsi responsabile verso il pubblico e solo una leadership che è disposta a mostrarsi pubblicamente coraggiosa può effettivamente suggerire che le fonti corrono dei rischi per un bene più grande. In questo processo, sono diventato il parafulmine. Ho ricevuto attacchi ingiustificati su ogni aspetto della mia vita, ma ho anche ottenuto credito come una sorta di bilanciamento di forza.

Tburgi: i governi occidentali rivendicano l’autorità morale di avere le garanzie giuridiche per una stampa libera. Le minacce di sanzioni legali contro Wikileaks ti sembrano indebolire questa affermazione?(La stampa deve essere protetta tranne per ciò che risulta impopolare per uno stato?Se essere stati sanzionati è la prova che siete un’organizzazione mediatica e quindi in grado di rivendicare il diritto di libertà di stampa, la situazione sembra essere la stessa sia nei regimi autpritari che in occidente). Sei d’accordo che i governi occidentali rischiano di perdere l’autorità morale anche attaccando wikileaks?Grazie, Tim Burgi. Vancouver Canada.

Assange: l’occidente ha fiscalizzato i suoi rapporti di forza di base attraverso una rete di contatti, crediti, con le partecipazioni bancarie e così via. In un ambiente del genere è facile per la parola essere “libera”, perché un cambiamento nella volontà politica raramente porta a un cambiamento di questi strumenti di base. La parola occidentale è un qualcosa che raramente ha effetto sul potere, è libera come i tassi o gli uccelli. In stati come la Cina, vi è una censura dilagante, perché la parola ha potere ed il potere ne ha paura. Dobbiamo sempre esaminare la censura come un segnale economico che rivela la potenzialità della parola in quella giurisdizione. Gli attacchi contro di noi da parte degli Stati Uniti indica una grande speranza, indica che il discorso è abbastanza potente da rompere il blocco fiscale.

Rajiv1857: Salve. Il gioco da cui siete stati presi si può vincere? Tecnicamente, si può continuare a giocare a nascondino con i poteri quando i servizi e i fornitori dei servizi sono direttamente o indirettamente sotto il controllo del Governo o vulnerabili a pressioni come Amazon? Inoltre se venite scoperti – anche in modo tecnico e non fisico – quali sono le alternative per il vostro materiale? Esiste una “seconda linea” di attivisti sul posto che potrebbero continuare la campagna?Il vostro materiale è dispero in modo tale che scovare una cache non indichi per forza la fine del gioco?

Assange: L’archivio del cable gate è stato diffuso, insieme ad altro materiale significativo sugli Stati Uniti e su altri Paesi, a più di 100 000 persone in forma crittografata. Se succede qualcosa a noi, le parti fondamentali verranno rilasciate automaticamente. Inoltre, gli archivi del cable gate sono nelle mani di multiple organizzazioni di notizie. Sarà la storia a vincere. Il mondo sarà elevato a posto migliore. Riusciremo a sopravvivere? Questo dipende da voi. 

Articolo tratto da "The guardian"

Uccidere un talebano costa 50 Milioni di dollari, uccidere un soldato della Nato ne costa 50.000

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Perché il Pentagono e la Nato stanno mandando in bancarotta gli Stati Uniti?

Il complesso militare-industriale è una bestia vorace che richiede la sua dose quotidiana ai contribuenti americani.

Il costo è di 50 000 dollari per ogni soldato della Nato ucciso e di 50 Milioni di dollari per ogni talebano ucciso. E’ quindi 1000 volte più economico uccidere un soldato della Nato; un fatto che non sembra preoccupare il Pentagono, la leadership della Nato o i ministri della difesa europei.


Il 30 settembre 2010, Kabulpress ha pubblicato un articolo di questo autore (Matthew Nasuti), fornendo i numeri dei talebani uccisi all’anno (2.000) divisi per una porzione dei costi diretti che il Pentagono spende ogni anno in Afghanistan (100 Miliardi di Dollari). La statistica che ne risulta suggerisce che il costo per ogni talebano ucciso è di 50 Milioni di Dollari. Questo numero è approssimativo. Se tutti i costi della Nato e degli Americani (diretti ed indiretti) fossero stati inculsi, l’analisti avrebbe rilevato che il costo effettivo è di circa 150 Milioni di Dollari.

Il presente articolo esamina la spesa da parte dei talebani, al fine di stabilire quanto costa uccidere un soldato della Nato. La Brookings Institution è la società di consulenza con il miglior accesso politico all’amministazione Obama e al Dipartimento di Stato Americano. Nel Settembre del 2009 ha pubblicato una relazione sul reddito annuale dei talebani, basato in parte sui dati raccolti dal Congressional Research Service.  Brooking stima che il reddito annuale dei talebani sia tra i 140 e i 200 Milioni di Dollari. I talebani hanno già causato 600 morti tra i soldati della Nato e più del doppio di questo numero di incidenti mortali all’esercito afghano e al personale di polizia. Entro la fine dell’anno, si prevede che il numero totale dei morti arrivi a 3.000. La matematica pourtroppo è facile. Supponendo che le entrate dei talebani siano di 150 Milioni di Dollari diviso 3.000 il risultato sarebbe 5.000 per ogni soldato afghano o della Nato ucciso.


Il portavoce del Pentagono Ten.Col. John L. Dorrian, reagnedo a questi parametri, ha detto a Bill Morris di AOL News che la stampa di Kabul ha usato una “logica semplificata” (il che è vero). Ma “semplice” non significa in alcun modo impreciso. Questi calcoli rimangono comunque strumenti utili per valutare le pratiche del Pentagono.

Il Pentagono non gradisce i parametri forniti da questo autore, perché rivelano l’incredibile spreco nella guerra del Pentagono e della Nato. Entrambre le entità, e i singoli Paesi che hanno contribuito con le loro truppe nella guerra in Afghanistan, sembrano incuranti della crisi economica globale. Stanno spendendo i soldi delle tasse dei loro cittadini.

Per esempio:

-mezzo Miliardo di Dollari sono stati stanziati per la fornitura di un anno di energia elettrica temporanea ad alcune zone di Kandahar. Questo esercizio del “villaggio Potempikin”, che non è affatto sostenibile, è progettato per mostrare l’illusione del progresso.

-La Nato, secondo il New York Times, sta utilizzando più di un milione di galloni al giorno di benzina e Disel, per un costo di più di 300.00 Dollari a gallone.

-il governo degli Stati Uniti ha pagato oltre tre Miliardi di Dollari ad alcune discutibili aziende del Kirghizistan per la fornitura di carburante per la base aerea di Manas, punto focale per traghettare le truppe della Nato e l’equipaggiamento di alto valore in Afghanistan. In un periodo di 24 ore, il 18 febbraio 2010, la base aerea di Manas ha utilizzato l’incredibile quantità di 544.578 di galloni di carburante. Nell’agosto del 2008, l’esercito americano ha aggiudicato un contratto 720 Milioni di Dollari alla “Red Star Enterprises Ltd.”, senza che vi fosse concorrenza. Questa ed altre società sono state segnalate per avere legami con le famiglie regnanti del Paese, e i pagamenti del contratto erano considerate tangenti indirette, anche se questo violerebbe l’U.S. Foreign Corrupt Practices Act. Il totale dei costi diretti ed indiretti per soddisfare le stravaganti esigenze logistiche delle forze Nato in Afghanistan non sono note.

-Più di 150.000 civili con contratto personale stanno attualmente cucinando, pulendo e lavorando per supportare le forze Nato in Afghanistan. Ciò equivale ad un servitore personale per ogni soldato. Non si era mai visto un livello di lusso simile in guerra.

-Kabul Press ha pubblicato decine di rapporti investigativi che dettagliavano vaste frodi, sprechi ed una cattiva gestione da parte del Pentagono, dell’Isaf, dell’Usaid e dell’ambasciata statunitense a Kabul. Altre decine di rapporti sono stati pubblicati dall’ispettore speciale generale per la ricostruzione dell’Afghanistan (Sigar). Ad oggi, nessuno è ritenuto responsabile. La mancanza di responsabilità fiscale all’interno della Nato e delle autorità statunitensi in Afghanistan è stupefacente.


Questo autore ha pubblicato una storia il 26 Settembre 2010, dal titolo “ragazza afghana uccisa da un colpo di mortaio americano”. Racconta unn episodio dello scorso Luglio, in cui un insorto a Marjah ha sparato contro i Marines americani e poi è scomparso. I marines in cambio, hanno sparato una raffica di colpi di mortaio uccidendo una ragazzina di 14 anni. L’articolo precisa che una raffica di mortaio costa in totale 10.000 Dollari all’acquisto. Questo non include le spese di spedizione in Afghanistan, che possono veder duplicato se non triplicato quel costo. Questo episodio, in cui i talebani spendono centesimi mentre la Nato spreca 10.000 Dollari, riassume il problema.
In conclusione, le metriche sviluppate da questo autore, hanno evidenziato in dettaglio, un livello di spesa da parte delle forze Nato, osceno ed inutile rispetto alla spesa da parte dei talebani. Le truppe Nato sono (per fortuna) difficili da uccidere, ma quando vengono uccisi il costo è tragicamente a buon mercato. Alla nato, oggi, è stato dato un assegno in bianco da spendere come vuole. Ma questo non può continuare.

Per ogni operazione o raid che la Nato lancia in Afghanistan, i media internazionali dovrebbero esaminare i costi contro i benifici e chiedersi: “A cosa ha portato l’operazione e quanto è costato il raid?”, “quali sono stati i costi diretti ed indiretti, compresa l’usura delle attrezzature?”. Le risposte rivelerebbero che, a meno che non vi sia una massiccia riforma nella guerra degli eserciti della Nato, l’Occidente non può continuare a permettersi di combattere i talebani.


Articolo tratto da www.kabulpress.org

“NÌGURI”, o neri che dir si voglia

20 dicembre 2010 · 0 Comments

“Nìguri” è il termine usato per indicare “neri” nel dialetto calabrese.
Ed è il titolo del documentario, uscito nel 2009, che mostra le reazioni del piccolo paese di Sant’Anna, nel crotonese, nel momento in cui gli abitanti si trovano a dover usare questa parola molto più frequentemente di quanto non si aspettassero.
Ma non solo le voci dei residenti.
Anche le storie e le volontà degli stessi “nìguri”, bloccati per mesi in un vero e proprio limbo costruito dallo Stato italiano.

locandina del film "Niguri"
Sant’Anna è sede di uno dei sette Centri di Accoglienza che troviamo in territorio italiano. Come possiamo leggere sul sito del Ministero dell’Interno , essi “sono strutture destinate a garantire un primo soccorso allo straniero irregolare rintracciato sul territorio nazionale. L’accoglienza nel centro è limitata al tempo strettamente necessario per stabilire l'identità e la legittimità della sua permanenza sul territorio o per disporne l'allontanamento”.
Dal documentario apprendiamo che questi immigrati aspettano anche tre o quattro mesi il foglio di carta che deciderà il loro futuro. Può sancire la possibilità di rimanere in Italia, oppure l’espulsione dal CPA e l’obbligo di lasciare il Paese entro cinque giorni dal rilascio del documento.
In sostanza la loro definitiva condizione di  irregolarità nel territorio italiano.

Quello che vediamo è una realtà desolata fatta di uomini e donne che impiegano il loro tempo a girovagare per le strade, a bere in casolari abbandonati e a prostituirsi.
Per la normativa vigente, hanno la possibilità di uscire dal Centro dalle otto della mattina alle otto di sera, ma non quella di dedicarsi a qualsivoglia attività lavorativa.
Gli immigrati intervistati se ne vogliono andare, chiedono il loro riconoscimento del “diritto d’asilo” per iniziare una vita vera, anche fuori dall’Italia. Dalle loro parole appare evidente che quella condizione di attesa protratta per mesi non è vita.

Ma il film ci mostra anche le ragioni del paese, circa 500 abitanti che si trovano all’improvviso a convivere con questa realtà degradata. Le voci non risparmiano severe critiche anche alle istituzioni, assenti in un territorio dove invece ne servirebbe una presenza massiccia.

“Nìguri”, equilibrato e ben girato, rappresenta le paure, la diffidenza, la riluttanza ad accogliere il diverso in un paesino della Calabria specchio della situazione odierna italiana. Ma si sofferma anche sull’altra prospettiva, quella degli immigrati, delle loro storie e delle loro speranze.
Il regista è Antonio Martino, bolognese d’adozione, ma cresciuto nello stesso villaggio in cui è ambientato il suo documentario. Con “Nìguri” Antonio Martino vince il Premio Miglior Documentario nel festival “Hai visto mai?”, diretto da Luca Zingaretti, tenutosi nel maggio 2010 a Siena.



M.B.

Tra Copenaghen e Durban: “in medio stat Cancun”

13 dicembre 2010 · 0 Comments


Rilanciati nella città messicana i negoziati sul clima dopo il deludente Cop15 con un pacchetto bilanciato. Ora si guarda con grandi aspettative a Durban 2011.


Si è conclusa sabato 11 dicembre con l’approvazione del cosiddetto “Pacchetto bilanciato” la 16esima conferenza delle Parti delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, tenutasi a Cancun, in Messico, alla quale hanno preso parte i rappresentanti di 194 paesi membri della “Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici” (UNFCCC) del 1992, riuniti presso il Moon Palace dal 29 novembre scorso.
Un summit, quello svoltosi nella città messicana, che portava con sé grandi aspettative dopo il fallimento del vertice di Copenaghen del 2009. Proprio il tavolo di trattative costruito nel capoluogo danese circa un anno fa aveva prodotto un accordo tra Stati Uniti, Brasile, Cina, India e Sud Africa, di cui gli altri paesi avevano preso atto essere, niente più di una “lettera d’intenti” verso una diminuzione del riscaldamento globale e la stipula di un trattato internazionale sul clima, come aveva commentato Yvo De Boer, segretario della Commissione ONU sui cambiamenti climatici.

Il “pacchetto” consta di due documenti, il primo dei quali prevede la creazione di un “fondo verde”, non ancora quantificato, finalizzato a mettere in atto misure per la salvaguardia delle foreste tropicali e all’aiuto dei paesi in via di sviluppo, ai quali sarà in questo modo permesso di adattarsi ai cambiamenti climatici.
Entro il 2020 saranno mobilitati dai paesi sviluppati  circa 100 miliardi di dollari all’anno, in aggiunta alla messa a disposizione di 30 miliardi di dollari da utilizzarsi durante il periodo 2010-2012.
Inoltre la gestione del fondo, posto inizialmente sotto l’egida della banca Mondiale, sarà in mano ad un comitato composto da 40 membri, di cui 25 dei paesi i via di sviluppo e 15 di quelli industrializzati.


Il secondo documento prodotto dai negoziati si occupa del Protocollo di Kyoto, unico testo in materia di clima giuridicamente vincolante a livello internazionale, evidenziando in particolare la necessità di ridurre il riscaldamento globale, bloccandolo al di sotto dei 2°C. Gli stati riunitisi a Cancun hanno così deciso di prorogare fino al 2011 i negoziati per un nuovo protocollo, che dovrà coinvolgere anche altri paesi come Stati Uniti e Cina, tra i maggiori produttori di gas serra, e che dovrà portare a decisioni concrete in materia entro la scadenza di quello attuale, fissata per il 2012.

L’unico voto contrario al testo del “pacchetto” viene dalla Bolivia che, attraverso il suo rappresentante Pablo Solon, parla di “attentato” in riferimento all’approvazione dell’accordo.  “Una vittoria falsa e vuota, imposta senza consenso, il cui costo verrà misurato in vite umane” continua Solon, secondo cui il testo riguardante il “dopo-Kyoto” non conterrebbe le misure necessarie a mantenere il riscaldamento globale sotto i 2 gradi. E ancora: “ E’ una vittoria dei paesi ricchi, imposta a colpi di minacce sui paesi poveri”, come riportato dall’agenzia di stampa ASCA.
Pronta la risposta di Patricia Espinosa, presidente Cop16 e ministro degli esteri messicano: ” La regola del consenso non significa unanimità, né che una delegazione possa pretendere di imporre il proprio diritto di  veto sul prodotto di così tanto lavoro”.
“Ci sarà probabilmente una nota a piè di pagina, dove si dirà che la Bolivia ha contestato”, sintetizza infine Jake Schmidt, portavoce dell’ONG americana “Natural Resources Defense Council”, liquidando di fatto la questione.

Da un lato, si parla di un passo avanti nei negoziati internazionali sul cambiamento climatico dopo il “flop” di Copenaghen, essendo riusciti questa volta ad arrivare ad un accordo condiviso da pressoché tutti gli stati presenti. Tuttavia non sono stati fatti i concreti passi avanti auspicati riguardo il “futuro” del Protocollo di Kyoto, rimandando di fatto le negoziazioni su questo tema al 2011, lasciando così sostanzialmente irrisolto il problema centrale delle emissioni di gas serra.

Diversi attivisti di Greenpeace hanno messo in atto un simbolico blitz di protesta nei giorni di svolgimento della conferenza collocando una serie di statue ad altezza naturale sott’acqua per richiamare l’attenzione sulle popolazioni costiere, le quali rischiano di venire sommerse a causa dell’innalzamento dei mari provocato dallo scioglimento dei ghiacciai per il riscaldamento globale.


“L’accordo di Cancun inaugura una nuova era per la cooperazione internazionale sul cambiamento climatico”, ha affermato con entusiasmo Patricia Espinosa. Nella stessa direzione le parole provenienti dai rappresentanti dell’Unione Europea e dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama, secondo cui la conferenza ha rappresentato un successo e un passo in avanti di tutti gli Stati nell’affrontare le questioni legate al riscaldamento globale.

 “Restano meno di 48 ore ai partecipanti alla conferenza per scrivere la storia e dare sicurezza all’avvenire dei nostri figli”, aveva dichiarato nella giornata di giovedì il direttore mediatico di Greenpeace Kumi Naidoo. Allo stesso tempo il direttore di Oxfam, Barbara Stocking aveva affermato: “L’atmosfera è più costruttiva rispetto a Copenaghen nel 2009, molti paesi sono determinati a rimettere in carreggiata i negoziati” sottendendo una certa speranza sul positivo esito del vertice.
“Non deludeteci!”  era stato il messaggio indirizzato a ministri e diplomatici impegnati nei negoziati da parte dei dirigenti delle ONG internazionali che si occupano di ambiente, i quali avevano convocato per giovedì una conferenza stampa comune per chiedere ai ministri e ai diplomatici impegnati nei negoziati di rilanciare le ambizioni.
Proprio alla luce di questo, il ruolo “discreto” assunto dalle ONG nei negoziati messicani, a differenza di quanto avvenuto al Cop15 di Copenaghen, accompagnato da ampie manifestazioni promosse da vari nuclei di società civile, ha lasciato perplessi gli osservatori esterni del vertice.

Le Nazioni Unite e il Messico hanno predisposto un apparato di sicurezza, costituito da un numero impressionante di militari e agenti di polizia. Gli stand delle delegazioni di società civile sono state poste a non meno di 7 chilometri dal Moon Palace, per scongiurare disordini durante le manifestazioni all’esterno della sede dei negoziati, puntualmente verificatesi.
Un risultato debole, non esaltante, quello del “pacchetto bilanciato” finale, risultato dei negoziati di Cancun, a detta degli ecologisti e degli attivisti per la giustizia ambientale, in quanto gli stati continueranno ad emettere eguale quantità di CO2 nell’atmosfera rispetto a quanto fatto fino ad ora.
L’accordo sul “pacchetto” rappresenta invece un importante passo avanti e una boccata di ossigeno per i negoziati internazionali sul clima, alla luce degli esiti della Cop15 di Copenaghen, per quasi tutti i rappresentanti degli stati intervenuti al vertice, sebbene essi ammettano che ci sia ancora molta strada da fare a proposito.
Possiamo individuare il maggior successo delle due settimane di negoziati messicani nell’intento da parte degli stati di ridare respiro ai negoziati internazionali sul clima, promuovendo il supporto alle economie in via di sviluppo da parte di quelle avanzate. Tutti verso un comune obiettivo: rispondere alle sfide del riscaldamento globale, le quali necessitano immediati provvedimenti.

Gli stati membri dell’UNFCCC si sono dati appuntamento a Durban, in Sudafrica, dove nel 2011 avrà luogo il seguito di Cancun, dove sarà il momento di “tirare le fila” dopo tante dichiarazioni di intenti.
Il pianeta non attenderà in eterno.


Per approfondire ulteriormente il tema: CC2010.mx
                                                              
                                                                       THE GUARDIAN
M.S.

Vino macedone – esclusivamente dalla Grecia

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A causa della controversa maratorna tra Skopje e Atene, la Macedonia non solo è bloccata nel suo processo di integrazione euro-atlantica, ma deve anche fronteggiare seri ostacoli nel regime di esportazione. I produttori di vino sono sempre più sotto pressione a causa dell’utilizzo pacifico dei prodotti a marchio d’origine – Macedonia. I viticoltori della Macedonia, infatti, non possono esportare i loro prodotti verso i Paesi dell’Unione Europea se l’origine geografica riportata sul prodotto risulta essere la Macedonia, ciò accade in quanto nel 1989 la Grecia ha protetto l’aggettivo “macedone”, riferisce Deutche Welle.  Alla fine del 2009 le autorità tedesche hanno scoperto che i supermercati del Paese avevano venduto vino “macedone” e così hanno chiesto il parere della Commissione Europea. 

Il Commissariato per l’Agricoltura di Bruxelles, ha confermato che il vino a marchio macedone potrebbe essere importato in Europa solo dalla Grecia, in quanto Atene ne protegge l’origine geografica. Una fonte interna alla Commissione Europea, la quale ha insistito per l’anonimato, ha confermato a Deutche Welle che la decisione presa sarebbe stata più difficile da applicare in futuro. La setssa fonte ha spiegato che uno dei motivo per cui la Macedonia aveva esportato negli ultimi vent’anni il vino “macedone” senza difficoltà nei Paesi dell’Unione Europea, era che molto probabilmente il vino aveva una bassa qualità e quindi nessuno si era curato della sua origine geografica.
Ma dal momento che negli ultimi anni, molte cantine private macedone hanno provato a filtrare nel mercato europeo con del vino di alta qualità, la Grecia questa volta ha reagito in modo molto più duro.
Le autorità macedoni sostengono che si tratti di una nuova campagna di Atene, i cui rappresentanti diplomatici in Germania e in Slovenia, avrebbero chiesto alle autorità competenti in questi Paesi, di vietare la vendita di vino proveniente dalla Macedonia.
Sul fronte politico, la Grecia sta facendo di tutto per bloccare l’adesione della Macedonia alla NATO e all’avvio dei negoziati con l’Unione Europea, Atene e Skopje si scontrano regolarmente sull’utilizzo dell’aggettivo “macedone” e su tutti gli altri campi, dagli eventi sportivi ai marchi di vino.
I produttori di vino della Macedonia temono che tutto ciò avrà effetti disastrosi sulle piccole esportazioni, che in questo settore sono già in profonda crisi. La Macedonia esporta gran parte del suo vino in Germania. Si stima che l’esportazione sia di circa 33 milioni di litri l’anno. Le autorità macedoni stanno ora aspettando di annunciare entro il 31 Dicembre, le Regioni con le indicazioni geografiche protette dal Paese.


“Se la Macedonia non è sulla lista, dopo la scadenza di questo periodo gli importatori dalla Germania non saranno più in grado di dichiarare il vino importato come di vino di origine geograficamente protetta. In questo caso, l’intera esportazione di vino dalla Macedonia in Germania e nell’Unione Europea sarà messo in discussione.” Dice Koko Mocan il capo della Società “Tehometal” di Francoforte, che si occupa del posizionamento dei vini macedoni nel mercato tedesco.
I produttori di vino macedoni, dicono di trovarsi in una posizione disperata e di non sapere come agire nel futuro. Alcuni di loro hanno già iniziato a mettere sulle etichette il riferimento FYRM – ex Repubblica Jugoslava di Macedonia – con la quale la Macedonia è stata ammessa alle Nazioni Uniti, ma essi affermano che questa non potrà essere una soluzione a lungo termine. 
Secondo le normative UE, in futuro sulle etichette dovranno esserci le varietà di vitigno o la regione della Macedonia nella quale il vino è prodotto. Me il problema è che in Macedonia né l’origine geografica, nè l’origine regionale del vino è stata protetta, dicono gli esperti. Povardarje,  la regione da cui proviene la maggior parte del vino, non è registrata nel Paese e nemmeno all’estero.

Z.P

London calling. L’università britannica risucchiata da politiche di tagli e austerità. Gli studenti non ci stanno.

7 dicembre 2010 · 0 Comments

Se nelle ultime settimane gli studenti italiani sono letteralmente saliti in cattedra, dando vita a mobilitazioni in tantissime città contro il disegno di legge in materia di scuola e università, noto come “riforma Gelmini”, ampiamente documentate dai media nostrani, non si può certo dire che quelli inglesi si siano rivelati da meno.


Londra, 10 novembre.
 Da qui inizia tutto: circa 50 mila studenti britannici nella giornata di mercoledì 10 novembre 2010 si sono riversati nelle strade della capitale britannica per mostrare il proprio dissenso nei confronti delle politiche di austerità adottate dal governo presieduto dal liberalconservatore David William Donald Cameron, in carica da poco meno di un anno, tra cui spiccano la proposta di aumento delle rette universitarie da 3 a 9 mila sterline annue e la sottrazione di 3 miliardi di sterline al sistema accademico nazionale. Sono in 52 mila, secondo la National Union of Students (NUS), a marciare nel centro di Londra per evidenziare la contrarietà di chi quotidianamente vive il mondo accademico rispetto alle politiche di tagli dei finanziamenti al mondo della formazione universitaria.
La protesta si dimostra da subito accesa, mantenendosi tuttavia pacifica nelle modalità di svolgimento. La situazione, tuttavia, sfugge al controllo quando duecento manifestanti, provenienti da un’ ala del corteo, occupano la Millbank Tower, sede londinese dei vertici del Partito Conservatore, devastandone la vetrata e ingaggiando una rissa con gli agenti polizia presenti, accusati a posteriori di non essere stati in grado di prevenire le violenze.

Intanto dal tetto dell’edificio compare una bandiera col simbolo del movimento anarchico mentre a terra volano oggetti di vario genere: bastoni, uova e bottiglie le “armi” più gettonate. Sempre dall’alto piovono alcuni bengala e un estintore che colpiscono 14 persone tra agenti e manifestanti, portati in ospedale. “This is just the beginning” recitano gli studenti, promettendo dura battaglia.
Una cinquantina di persone sono state poste in stato di fermo dopo gli incidenti e rilasciate su cauzione. “ Non è accettabile. E’ imbarazzante per Londra e per noi”. Commenta così il mancato anticipo delle violenze da parte delle forze dell’ordine Paul Stephenson, commissario della polizia londinese.

Video delle proteste: http://gu.com/p/2y2ny

All’indomani della giornata di contestazione e scontri, il premier David Cameron da Seoul, dove è impegnato per il summit G20, condanna pesantemente i responsabili dell’assalto al quartier generale Tory e fa sapere di non avere intenzione di fare alcun passo indietro in merito alla decisione di aumentare le rette universitarie da 3 a 9 mila sterline annue.
Anche la National Union of Students prende le distanze dagli episodi di violenza avvenuti il giorno prima: “ Avevamo discusso della necessità di adottare un comportamento responsabile alla manifestazione. Sfortunatamente una parte degli studenti è andata nella direzione opposta”, dichiara amareggiato il presidente NUS Aaron Porter.
Durante una visita a Beijing in Cina, il presidente Cameron aveva sottolineato come una delle  principali ragioni alla base della proposta di aumento delle tasse universitarie agli studenti inglesi fosse l'intento di alleggerire i costi di laurea di quelli stranieri. Senza dubbio benzina sul fuoco per gli accesissimi animi degli studenti britannici.


Atto secondo: re-wave!
La seconda ondata di proteste si riporta in data 24 novembre, giornata in cui più di 25 mila studenti hanno sfilato in corteo in diverse città britanniche per ribadire in modo netto che la questione relativa ai tagli al mondo della formazione apportati dal governo è tutt’altro che chiusa. Numerosi studenti dei “college”, in segno di solidarietà nei confronti dei colleghi universitari, si sono dati appuntamento tramite il social network Facebook fuori dai cancelli dei rispettivi istituti alle 11 del mattino per prendere parte alla protesta. Londra, Leeds, Liverpool, Manchester i principali centri interessati, così come molte altre città del Regno Unito.

Nella capitale circa un migliaio di studenti, rappresentanti di una minima parte dei partecipanti all’evento, si sono riuniti davanti al Birkbeck College, parte dell’Università di Londra. La protesta, non coordinata questa volta dai sindacati, prevedeva l’avvicinamento dei vari cortei a Trafalgar Square e la contestazione sotto i quartieri generali dei “traditori” liberaldemocratici, i quali avevano promesso durante la campagna elettorale il loro voto contrario all’innalzamento delle rette universitarie, salvo poi smentire le proprie parole coi fatti. Proprio la piazza dedicata alla celebre battaglia del 1805 sarà teatro di duri scontri tra studenti e forze di polizia, impiegate in larga misura in quest’occasione.
Occupazioni sono state realizzate presso la Royal Holloway e la London South Bank di Londra e presso le università di Plymouth, Birmingham e la “University of the West of England” di Bristol, mentre iniziative di vario genere hanno interessato Oxford, Cambridge, Edinburgh, Sheffield, Cardiff, Southampton, Newcastle e Winchester. A Londra un gruppo di studenti ha letteralmente preso d’assalto un furgone della polizia posto nei pressi del Parlamento, cercando di ribaltarlo e rompendone il parabrezza. Le forze dell’ordine hanno fatto sapere di avere arrestato 35 persone, di cui 9 legati al danneggiamento del furgone.

Alcuni leaders del movimento studentesco britannico hanno definito “assolutamente scandalosa” la risposta degli agenti di polizia alle proteste in data 24 novembre. Simon Hardy, portavoce della “National Campaign Against Fees and Cuts”, ha dichiarato all’agenzia di stampa Reuters UK: “Che noi fossimo bloccati per cinque o sei ore, senza che ci fosse permesso di andarcene, intimiditi e maltrattati da centinaia di agenti di polizia, mentre stavamo solo esercitando il nostro democratico diritto di protestare, lo ritengo un vero scandalo”.
Immediata la replica della Metropolitan Police: “Abbiamo una serie di comportamenti a disposizione, di cui uno è il contenimento, da utilizzare laddove sia appropriato e giustificato”.
Il video, il cui link è riportato di seguito, mostra le cariche effettuate dalla polizia inglese a cavallo nei confronti di un cordone di studenti. Il giorno dopo il fatto il comando della Metropolitan Police ha fatto sapere che la strategia delle forze dell’ordine “non implicava la carica della folla”.


Il vice-premier britannico Nick Clegg aveva chiesto agli studenti di riconsiderare la propria posizione e di ascoltare le proposte del governo prima di scendere in piazza. Evidentemente inascoltato, dobbiamo dedurre.

30 novembre
Migliaia di studenti inglesi, non curanti del clima rigido, nella giornata di martedì 30 novembre hanno dato vita a Londra e in molti altri centri britannici a quella che si è configurata come la terza ondata di proteste nel giro di un mese. Gli organizzatori hanno dovuto tuttavia registrare un calo di partecipazione rispetto alle due precedenti giornate di mobilitazione. A Edinburgh gli studenti hanno organizzato una protesta pacifica attraverso il lancio di palle di neve contro l’ Holyrood Palace, residenza ufficiale scozzese della Regina Elisabetta II. Una trentina di studenti a Oxford, invece, hanno occupato il County Council Building, dopo avere marciato in corteo per tutta la città. A  Leeds, Sheffield, Edinburgh, Liverpool, Belfast, Brighton, Manchester e Bristol, come accaduto in occasione del 24 novembre, gli studenti dei “college” si sono uniti agli universitari nella protesta. Il bilancio comprende 8 facoltà occupate in tutto il Regno Unito e 153 manifestanti arrestati dalle forze dell’ordine durante gli scontri, immancabili anche in questa terza giornata di proteste. Nel frattempo, il governo di Cardiff  ha affermato che gli studenti gallesi non pagheranno per i propri studi oltre 3.290 sterline all’anno. Dichiarazione che suona come una conferma di quanto affermato dal presidente Cameron qualche giorno prima da Bejing.

Ma gli studenti non hanno intenzione di fermarsi. Infatti la National Union of Students ha invitato tutti a mobilitarsi nuovamente l’8 dicembre prossimo, giorno del voto alla camera dei Commons del famigerato piano di innalzamento delle tasse universitarie. Non rassicurano certo gli studenti le parole Vince Cable, ministro del governo Cameron per l’università, il quale ha anticipato la sua decisione di astenersi dal voto del piano.
Inoltre, fa sapere NUS, in caso di voto favorevole dei Commons, è in programma una veglia in occasione di cui accendere 9.000 candele, quante sono le sterline che verrebbero chieste annualmente agli studenti inglesi per i propri studi.
“Non finisce qui, caro Cameron – sembrano volere dire gli studenti – anzi, comincia adesso!”

Aggiornamenti in tempo reale sulla vicenda: 


BBC


GUARDIAN
                                                                              
                                                                     
M.S

Quando l'exit strategy statunitense coincide con l'enter strategy talebana

4 dicembre 2010 · 0 Comments

Il 28 Gennaio di quest’anno si è svolta la conferenza di Londra a cui hanno partecipato i rappresentanti delle comunità internazionali di 70 paesi, i ministri degli Esteri della missione Isaf, i rappresentanti di Onu, Ue, Usa, Nato, di alcuni paesi vicini all’Afghanistan e alcune istituzioni internazionali come la Banca Mondiale, il Fondo Monetario internazionale e diverse organizzazioni non governative. L’obiettivo della Conferenza avrebbe dovuto essere l’analisi della situazione afgana, la ricerca delle soluzioni per il ritiro delle forze internazionali, il passaggio delle consegne in tema di sicurezza alle forze afgane, e la ricerca di un dialogo con i talebani. L’ultimo punto in particolare è forse quello che ha destato maggiore attenzione. 



A Londra si è parlato, infatti, di tendere una mano ai talebani che deporranno le armi, senza considerare il fatto che nessuno di questi terroristi ha mai dichiarato di voler partecipare al processo di “riconciliazione”. Nonostante questo, è stato persino approvato un fondo di 500 milioni di dollari per assicurare  “un posto dignitoso nella società a coloro che rinunceranno alla violenza, parteciperanno alla società civile e rispetteranno i principi della costituzione afghana, taglieranno i propri legami con Al-Qaeda e altri gruppi terroristici e perseguiranno i propri obiettivi politici in maniera pacifica”. I talebani tuttavia sembrano non aver apprezzato ed hanno anzi definito la confrenza uno “strumento di  propaganda che non avrà risultati”.


Forte dell’appoggio internazionale, il 18 settembre di quest’anno a Kabul il Presidente afghano Hamid Karzai ha deciso di istituire l’Alto Consiglio per la pace, il cui scopo ufficiale sarebbe quello di creare un dialogo e dare il via alle trattative con i talebani, affinché cessino le ostilità con il governo. Per favorire il “processo di pace”, inoltre, Karzai ha promesso ai talebani che deporranno le armi denaro, posti di lavoro, case e una scorta per la loro protezione, insomma una vincita al lotto.  Molte critiche sono state mosse al riguardo soprattutto per quanto concerne la composizione dell’istituzione che a quanto pare conta tra i suoi membri loschi personaggi accusati di violazione dei diritti umani e crimini di guerra. Nulla di nuovo considerando le amicizie del Presidente Karzai. Un giornale di Kabul afferma che “i membri dell’ HPC (High peace Council) hanno più esperienza con la guerra che con la pace”. Il consiglio è composto di 68 membri di cui otto donne, dodici dei suoi componenti hanno ricoperto incarichi nel governo dell’Emirato talebano tra il 1996  il 2001.



Da parte loro i talebani affermano di non voler aprire alcuna trattativa, almeno fino a quando tutte le truppe straniere non avranno abbandonato il Paese. Risulta infatti ben noto a chiunque conosca un minimo la storia dell’Afghanistan, che gli estremisti islamici accetteranno la “riconciliazione” solo quando saranno certi di poter prendere nuovamente il controllo sull’intero paese. Gli Stati Uniti hanno già espresso il loro sostegno per appoggiare le trattative tra l’HPC e i terroristi talebani che a detta loro “abbandoneranno le armi”. Gli Stati Uniti hanno quindi deciso di appoggiare un progetto, che da un lato permetterebbe loro di uscire dal pantano afghano con le mani “pulite” e dall’altro permettere ai talebani di far precipitare nuovamente il paese in quel regime oscurantista e barbarico che precedette il 2001.


L’amministrazione Obama, inoltre, sta di fatto avvallando i negoziati tra Karzai e i talebani suoi fratelli (come li ha definiti egli stesso) , apertamente mediati dai vertici militari pakistani.
Ma come è possibile che persone che si fanno esplodere per aria, che gettano l’acido in faccia alle donne, che avvelenano le ragazzine che vanno a scuola, che uccidono civili, persone di etnia differente dalla loro (cioè non pashto), membri del governo ed operatori umanitari possano esser reinseriti nella società afghana?La risposta non è presente nella retorica del fare pace a tutti i costi dell’Alto consiglio per la pace. 


E soprattutto cosa ne pensa la popolazione afghana di tutto questo? Certamente alcune persone crederanno al nobile scopo, ma le etnie non pashto sono alquanto scettiche e preoccupate al riguardo, esse sanno infatti che se l’HCP ottenesse risultati concreti per loro sarebbe la fine. Il presidente Karzai e gli insorti infatti, appartengono tutti all’etnia pashto, i cui esponenti politici e militari da centinaia di anni tentano di eliminare le altre etnie dall’Afghanistan operando sistematiche opere di genocidio,  ora cosa accadrebbe loro se il paese tornasse nelle loro mani? Il pericolo di una guerra civile, a questo punto è ormai più che una temibile ipotesi.  
Ecco alcuni dei membri dell’Alto Consiglio per la Pace:
Sibghatullah Mujaddedi:  presidente della Loya Jirga costituzionale a proposito dei diritti umani e civili: «Dobbiamo tutti rispettare il voto. Le donne sono libere di votare per gli uomini. Gli uomini sono liberi di votare per le donne. Non possiamo fare questa separazione … Ma non cercate di porvi allo stello livello degli uomini. Dio stesso non vi ha concesso gli stessi diritti perché nel suo disegno due donne valgono quanto un uomo» The New York Times.


Abdul al-Rasul Sayyaf:  militante fondamentalista di matrice islamica afghano pashton. Negli anni Ottanta ha preso parte alla guerra contro il governo del Partito Democratico Popolare dell'Afghanistan (PDPA) guidando una fazione dei Mujahedin dell'Unione Islamica per la Liberazione dell'Afghanistan. Durante tale guerra, ha ricevuto il sostegno e l'aiuto di volontari arabi che finanziarono i suoi Mujahedin. Si dice inoltre che Sayyaf sia stato il primo ad aver invitato Osama bin Laden in Afghanistan. Egli è responsabile della formazione delle reclute di Al-Qaeda in Afghanistan e dell'uccisione di massa di civili. Nel 1993, durante la guerra civile afghana, la fazione di Sayyaf fu responsabile di aver compiuto "ripetuti massacri umani", quando i suoi mujahidin si scagliarono contro i gruppi minoritari sciiti. Sayyaf è ritenuto a ragione essere uno dei più spietati criminali di guerra della storia afghana.

Arsala Rahmani: funzionario di alto livello del ministero degli affari religiosi durante il regime talebano. Impose severe restrizioni delle libertà fondamentali, in particolare e soprattutto per le donne.

Sher Muhammad Akhunzada: attualmente governatore della provincia di Helmand, è legato ai recenti abusi commessi dalle forze armate sotto il suo controllo, compresi quelli perpetrati nelle prigioni private.


Burhanuddin Rabbani: è stato presidente dell’Afghanistan dal 1992 al 1996. Nel 1992 Rabbani lanciò un’ offensiva su Hizb-e Wahdat,  partito unico nato come movimento di opposizione. Amnesty International ha successivamente riferito che in quest’offensiva vennero uccisi civili disarmati e moltissime furono le donne che vennero violentate. Nel febbraio del 1993, inoltre, centinaia di residenti Hazara, nel quartiere di West Afshar Kabul sono stati massacrati dalle forze governative sotto la direzione di Rabbani e Massoud suo capo comandante.
Ayatullah Sheikh Asif Mohsini: L’Ayatullah Sheikh Asif Mohsini fu uno dei responsabili della “legge sulla famiglia shiita” con cui Karzai legalizzò lo stupro coniugale nel 2009. Con questa legge il Presidente Karzai poté infatti accontentare l’ayatollah, assicurandosi così i voti dei fondamentalisti sciiti da lui rappresentati alle elezioni presidenziali.  La legge prevede che “la donna debba essere pronta per il sesso ogni volta che il marito lo richieda. In caso contrario il marito è legittimato a privare la moglie “disobbediente” del cibo.”




E’ previsto inoltre il divieto per le donne di uscire di casa senza il marito. Mohsini è anche accusato di aver violentato una ragazzina a Mashhad in Iran. Quando la notizia dell’accaduto giunse in Afghanistan, Mohsini, 64 anni per “salvare” l’onore della famiglia sposò la ragazzina che all’epoca aveva 14 anni. Mohsini afferma di aver sposato quattro donne, secondo la legge della sharia islamica. Il numero dei suoi matrimoni non-sharia, naturalmente non è noto.



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